Celibato dei preti: uno sguardo dalle periferie

In una chiesa a dimensione mondiale, che comprende realtà sociali e culturali tra loro diversissime, cosa dice ai fedeli il celibato dei preti? La questione potrebbe essere il volano di una riforma sinodale della chiesa?
21 Gennaio 2020

Contrariamente al solito (sono impulsiva – troppo), sono riuscita a non scrivere immediatamente quel che pensavo sull’uscita del libro del card. Sarah. E meno male… il giorno dopo la prospettiva era del tutto mutata, e si evolve ancora, mentre rimane invariato il dolore per un ‘pasticcio’ (con un eufemismo) che amareggia e divide. Di nuovo.

Non voglio quindi, per ora, entrare nel merito della vicenda e delle molte domande che ha sollevato, vorrei piuttosto condividere un pensiero sul celibato presbiterale, in una chiave particolare e collocando il tema nel quadro della sempre più necessaria riforma della Chiesa.

Io sono docente in Facoltà Teologica del Triveneto e in questo periodo mi sto confrontando con le tesi di due studenti africani (Mozambico e Cameroun) che stanno studiando l’uno il tema del matrimonio, l’altro della condizione femminile nel contesto delle loro terre d’origine. Questo lavoro si sta rivelando prezioso, perché dischiude uno squarcio sull’inculturazione del cristianesimo in zone tanto lontane dalla nostra prospettiva da risultarci impensabili, e impensate.

Leggendo, ogni tanto mi sembra di intuire ciò che hanno provato i padri conciliari, trovandosi per la prima volta nella storia a percepire concretamente la realtà di una chiesa a dimensione mondiale, vivendo quasi “l’esperienza fisica della sua universalità” e delle diversità che la segnano (G. Routhier, La chiesa dopo il Concilio).

Io ho toccato quasi con mano il peso della cultura tribale, la sua influenza sulla vita delle persone e la portata davvero rivoluzionaria della dottrina su matrimonio e famiglia per la promozione umana e cristiana. Ciò che noi diamo per scontato, e che da alcuni viene visto come limitante, si mostra in tutta la sua novità, in tutto il suo valore trasformativo, nella sua capacità di incidere profondamente nella vita di un popolo e delle singole persone che lo compongono, e di farla crescere verso il progetto di Dio.

In quel contesto, il celibato dei preti assume un peso particolare. Che un uomo possa scegliere di non sposarsi (cosa inconcepibile per la mentalità tribale), ma di porsi invece al servizio di tutti, per amore a Cristo e alla chiesa, è una testimonianza di grande significato: mostra, concretamente, una prospettiva ‘altra’, le dà occhi, e mani, e corpo.

Il valore di un uomo, poi, fondandosi sul servizio, si sgancia anche dall’esercizio del potere su una donna/una famiglia e dalla valorizzazione della potenza sessuale; di converso la dignità della donna viene promossa, anche attraverso un cambiamento del ruolo maschile (è quello che qui in Occidente auspichiamo da tanto: per crescere nel rapporto tra i generi anche la maschilità è chiamata a ripensarsi); parallelamente, insieme alla parità tra i due caratteristica del sacramento del matrimonio, anche la possibilità per la donna di scegliere di essere una religiosa ne promuove la liberazione dal paternalismo imperante.

Questa prospettiva è culturalmente così difficile che, per esempio, ne sono ben note alcune distorsioni (come i casi di abuso sessuale sulle religiose da parte dei preti), mentre permane la concezione del sacerdozio anche come esercizio di potere, sia a livello personale che delle comunità. Ma il Regno di Dio è un piccolo seme, che cresce. Di notte o di giorno, come, nessuno lo sa.

Il celibato ecclesiastico in quel contesto mi sembra possa ancora essere, quindi, una manifestazione viva della novità evangelica, tradotta per i bisogni di quella terra; una novità che prende forma anche attraverso il mantenimento di una norma non di natura dogmatica ma pastoralmente feconda. In un diverso contesto socioculturale e per lo stesso identico motivo – la gerarchia dei valori in gioco (Evangelii gaudium 36-37) e i bisogni di una comunità – si può aprire invece la riflessione sul celibato in altre direzioni, come è stato fatto durante il Sinodo per l’Amazzonia. In questo quadro, la prospettiva essenzialista sulla quale tanto ci siamo confrontati si mostra insufficiente, i dibattiti sulle teorie poco fecondi.

In ogni caso, a mio avviso l’intera vicenda fuga ogni ipotetico dubbio sull’inderogabile necessità di una riforma della chiesa, che dia maggior peso alle Conferenze episcopali locali per promuovere l’inculturazione della fede in ciascuna specifica realtà.

Il centralismo euro-occidentale è definitivamente finito. Urge una riforma del primato in prospettiva sinodale.

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