Sull’eutanasia e dintorni…

Il grande tema si era affacciato, come un battito d'ali, nella nostra leggera conversazione da treno, e le aveva portato tutta la dolcezza della verità, una verità nata e ritrovata nel corpo e nelle sue leggi
19 Maggio 2016

Mi è capitato di recente di viaggiare in treno dentro al vagone di un regionale veloce in un tragitto spesso per me molto noioso in quanto c’è una fermata anche nella più anonima stazioncina. Eppure in questo viaggio recente, in un’ora centrale del giorno col sole radente dai finestrini che ti colpisce la vista e i primi caldi che cominciano a farti sudare è avvenuto un incontro di una bellezza straordinaria che, ormai a distanza di giorni, continua a tornarmi in mente come uno di quei doni speciali che servono per riempire il bagaglio perenne che ognuno di noi porta con sé senza più ormai volerlo deporre.

Dopo aver sistemato il mio piccolo bagaglio mi ero seduta di fronte ad una signora, direi più o meno sulla settantina, con occhiale da sole scuro e capello molto corto brizzolato. Jeans e giubbottino leggero abbellivano quella sua età proclamando che i suoi anni erano qualcosa che non le pesava affatto, anzi sembravano solo arricchirla. Così, pian piano, senza alcuna forzatura eravamo scivolate in una conversazione che, partendo da primi generici convenevoli, ci aveva condotto, con una semplicità tipica degli incontri veri, ad affrontare tematiche che in quel contesto e a quelle temperature avrei sicuramente rifiutato ragionando a priori.

Intanto la signora era un medico di base che esercitava ancora la professione, serenamente separata e con una sola figlia che stava andando a trovare in quel week-end, poco smaniosa di diventare nonna e senza alcuna critica velata alla figlia che, a suo dire, sebbene plurilaureata viveva come insegnante di danza insieme al suo compagno… La simpatia per lei era poi cresciuta quando le avevo sentito dire questa frase, che lei stessa ripeteva agli amici già pensionati: sperava di divertirsi durante la sua pensione ormai prossima, ma lei già si stava “divertendo” lavorando, anche se si sentiva un po’ stanca (alcuni giorni concludeva le visite anche alle dieci di sera)…

A quel punto mi ero seduta meglio sul mio scomodo sedile del treno, e l’avevo seguita addentrarsi in racconti genuini e freschi tratti dalla sua quotidianità professionale, non cercati come avvallo ad una tesi da dimostrare, ma anelli di una catena di vita in cui la vedevo muoversi nella casa di una famiglia con figlia cocainomane affetta da una terribile infezione al naso, riprendere insofferente una ricca signora novantenne colpita solo da lievi cistiti ricorrenti (“il minimo per una novantenne che era sempre stata bene!”), cenare da una famiglia di marocchini dove lavorava solo il padre diabetico per mantenere moglie e tre figli (“era preoccupata perché lavorava troppe ore, inclusi turni di notte”)… e lei, la dottoressa, a impastarsi in queste situazioni “pietose” solo da fuori, ma vive “se sei tu il medico di famiglia di quella famiglia”!

Il suo accento bolognese mi cullava come in un crescendo, sicuramente in uno scambio che ci aveva isolato in un cerchio magico, e mi portava dolcemente avanti fino al momento in cui ci eravamo addentrate nella sofferenza di alcune famiglie che le era capitato di seguire e che avevano figli “disabili”… Non ricordo se questa parola fosse uscita da lei, forse all’antica aveva detto “handicappati” o semplicemente malati, malati gravi, malati con malattie senza nome e soprattutto senza cura. Così cominciava a parlarmi di una ragazza, affetta da una malattia gravissima degenerativa e senza nome… e di come, a distanza di anni dato che ormai era morta da tempo, non riuscisse a dimenticare le cure straordinarie di quella famiglia a cui era stata data in sorte una figlia e una sorella che, nel corso degli anni, aveva inspiegabilmente perso tutti i sensi, escluso il gusto… Per nutrirla, essendo ormai immobilizzata, era stato necessario nel tempo effettuare una peg, cioè una nutrizione artificiale servendosi di un tubicino e di una sacca piena di preparati nutrienti…

Mentre parlava, e il suo modo bolognese di allargare le vocali le rilassava quasi la bocca in un costante sorriso, mi veniva presentato anche il padre della ragazza (addetto a nutrirla, perché la mamma invece lavorava ancora…) che si era stancato di sentire sua figlia perennemente odorare di vaniglia dolciastra (“questo l’odore di quel preparato clinico”, mi aveva aggiornato la dottoressa) e aveva deciso di prepararle lui stesso meravigliose pappe fluide, ma naturali, a base di miele, orzo in polvere, biscotti solubile e tanto altro… per ridarle la dignità di un cibo “normale”! Ma mancava un particolare… la dottoressa mi guardava e già le scendeva una lacrima da sotto i suoi occhiali da sole da signora: “Mi scusi ma ogni volta che lo racconto mi viene da piangere:… ” Beh, quel padre, ogni volta che attaccava una sacca nuova con i suoi “manicaretti” alla figlia, con un piccolo cucchiaino le faceva fare sempre un minuscolo assaggio sulla lingua perché non perdesse il gusto del cibo e nutrirla non diventasse un semplice atto terapeutico. “Solo l’amore di un padre poteva fare questo, non trova signora?”…

Io non riuscivo a risponderle per la commozione ma la seguivo mentre aggiungeva: “Sa, erano i tempi di Eluana Englaro e tanto si parlava di eutanasia…”. Il treno continuava a correre e lei aggiungeva: “Ma mi dica lei se si può decidere di lasciar morire di fame qualcuno? A volte queste nutrizioni sono proprio l’unico modo per non far morire di fame questi ragazzi!”… E io dentro di me aggiungevo: nel caso di quel padre, anche di non fare perdere alla figlia il senso del gusto, unica finestra residua del suo corpo per conoscere il mondo. E così il grande tema dell’eutanasia si era affacciato, come un battito d’ali, nella nostra leggera conversazione da treno, e le aveva portato tutta la dolcezza della verità, una verità nata e ritrovata nel corpo e nelle sue leggi.

Da ogni discorso traspariva, almeno così mi era parso, che la dottoressa volesse certamente difendere la sua mentalità laica ma ancor di più il valore della vita solo a partire dall’amore che aveva visto, in oltre quarant’anni di carriera, vincere sulla voglia di morire e di far morire. In poche e semplici parole nate dalla sua esperienza credibile aveva oltrepassato le barricate degli infiniti scontri ideologici su uno dei grandi temi classici della morale e della fede , partendo solo della legge scritta nel corpo di un padre che entra in relazione col corpo della figlia e si ascolta a fondo per difendere in lei un accesso di sensi ormai sottilissimo…

Gustare, assaggiare e forse in certo qual modo condividere il cibo ancora insieme, come seduti alla stessa tavola di famiglia, erano diventati gesti consueti e sovrumani nella loro bellezza coraggiosa, capaci pienamente di gridare vita, vita sacra e voluta da Dio che solo poteva essere difesa oltre ogni ragionamento che si scollega, “teorico” e superbo, da un ascolto umile delle molte voci espresse dalla propria fisicità, non esaltata, ma semplicemente accolta…

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