La tua vita non era senza scopo

La tua vita non era senza scopo
3 Luglio 2017

Ho letto con grande attenzione l’articolo (http://www.informarexresistere.fr/medico-cattolico-ecco-perche-e-giusto-staccare-la-spina-a-charlie-gard/) della dott. sa Alessandra Rigoli sulla triste vicenda di Charlie Gard. Dico subito che non condivido le conclusioni della dott.sa, che ritiene corretta la scelta operata, di lasciarlo morire in quel modo. Forse in un modo diverso, sarebbe stato più umano, e avrei anche potuto accettarlo, ma non in quel modo! L’articolo, però, ha il pregio di offrire, finalmente, ragionamenti concreti e competenti, che raramente ho trovato in giro su questioni così delicate.

“Il mio è solo il parere di un medico cattolico che si pone, senza idee prefissate o preconcetti, ma cercando una sguardo di verità e carità, di fronte alle singole e specifiche situazioni che incontra” afferma la Rigoli che ritiene, nel caso di Charlie, si siano rispettate le indicazioni cattoliche. Per Charlie, infatti, giustamente non si può parlare di Eutanasia, ma di “interrompere alcuni atti medici, artificiali, che lo tengono in vita, ma senza alcun risultato in termini di autonomizzazione presente e futura”. E questo è ammesso dalla Chiesa. E fino a che punto è giusto mantenere questi atti medici artificiali? Anche qui la Rigoli risponde con chiarezza, secondo quanto la dottrina cattolica ha già deciso da tempo. “Se un atto causa più sofferenza rispetto ai vantaggi terapeutici che arreca è dannoso, inutile, ingiusto”.

Fino qui sono d’accordo, ma qui una domanda mi sorge, per come la vicenda di Charlie è stata gestita: i vantaggi terapeutici sono effettivamente verificabili in modo discretamente oggettivo in campo medico. La sofferenza è altrettanto verificabile in modo oggettivo? Temo di no. E infatti la Rigoli si appella all’esperienza diretta sua (che non metto in dubbio) e invita noi a fare un giro in una rianimazione pediatrica, per renderci conto della sofferenza. Il che significa che una valutazione oggettiva non c’è, ma solo esperienza soggettiva.

Il modo di gestire la malattia e la morte di Charlie mostra, nei fatti, come questo criterio sia stato applicato solo misurando i vantaggi terapeutici. Cioè, se vantaggi ce ne sono, vale la pena mantenere gli atti medici artificiali, se non ce ne sono non vale la pena. Non a caso la Rigoli stessa cita il caso analogo di due bambini a cui sono state permesse “ulteriori cure” perché c’era la fondata speranza di qualche miglioramento terapeutico, anche a fronte di grandi sofferenze patite dai bambini stessi. Perciò, davvero la misura era, di fatto, solo tra esistenza o non esistenza dei vantaggi terapeutici.

E’ evidente invece che se si voleva davvero “misurare” la sofferenza, cioè applicare il criterio cattolico per intero, si sarebbe dovuto fare intervenire anche fattori soggettivi: la percezione della sofferenza dei genitori. Ma allora tutto sarebbe cambiato. Perché a quel punto l’azione del medico non sarebbe stata decisa più solo in base alle conoscenze tecniche, ma anche tenendo conto di ciò che i familiari esprimevano. La Rigoli dice che il limite esiste e va accettato. Certo, verissimo. Ma chi è un medico per decidere che la non accettazione del limite da parte dei due genitori, non vada presa in considerazione e rispettata?

Ma le domande mi crescono, di peso e numero, quando la Rigoli presenta l’”argomento sociale”: “Per un bambino che occupa un posto in rianimazione per settimane senza prospettive di miglioramento, decine di altri bambini forse con patologie acute guaribili, non hanno possibilità di accesso per il posto occupato”. Tradotto. Per questioni economiche, di organizzazione sociale, e politiche non è “eticamente” corretto che Charlie continui a vivere.

Ora, non facciamoci prendere dall’idealismo. La Rigoli fa un ragionamento molto reale. “In medicina (…) funziona così, sempre. Si parte dal più grave che può essere salvato. Non da chi non ha chance. Crudele? Sì. Ma il limite, il limite esiste. Dunque è immorale tenere per mesi occupato un posto per un bambino che viene tenuto in vita per non affrontare il fatto che non c’è nulla da fare”.

La medicina ha dei limiti, certo, ma dovrebbe ricordarsi che non è tutta la realtà! Ad esempio, come mai la struttura sanitaria non si è preoccupata di sostenere e potenziare la disperata ricerca di soldi che i genitori di Charlie hanno messo in moto e che in pochi giorni aveva già raccolto centinaia di migliaia di sterline? Ad esempio, sarebbe stato possibile raccogliere una cifra sufficiente a garantire la gestione di un posto di rianimazione pediatrica in un altro ospedale (ammesso che Charlie non fosse trasportabile) per un eventuale altro bambino da ricoverare? Ma poi, davvero c’era qualche altro bambino in quel momento da ricoverare, che non ha potuto avere le cure necessarie? O il limite, in questo caso era solo ipotetico e generale, non specifico di quella situazione?

Mi si dirà che questo non è compito della struttura sanitaria. Certo. Allora però come mai la struttura sanitaria si è assunta il compito di decidere che quel bambino doveva morire? E qui la Rigoli è chiara: il bene di Charlie era di essere lasciato morire. Lei ritiene che la scelta operata fosse davvero il bene migliore per quel bambino e lo fa sulla base delle sue conoscenze mediche, messe in relazione con la propria percezione soggettiva della sofferenza, che lei stessa ritiene sia stata vissuta da Charlie, e di quella ipotetica che avrebbe continuato a percepire se fosse rimasto vivo. Ma senza per nulla prendere in considerazione quella oggettivamente espressa dei genitori. Quindi, la medicina riconosce di avere dei limiti, ma pretende di decidere quale sia il bene di quel bambino, senza darsi problema se ci siano o no condizioni non mediche che possano “spostare” anche di poco i limiti che definiscono quel bene, e senza tenere in conto l’espressione oggettiva della sofferenza percepita dai genitori. Mi sembra davvero una bella contraddizione.

Forse che esiste una presunzione, della struttura sanitaria, di avere un potere di vita o di morte maggiore di ciò che di fatto è? Davvero pensiamo che quella vita sarebbe rimasta “attiva per sempre”, se lasciata attaccata alle macchine, e che un giorno la natura non avrebbe comunque messo fine a quella vita? La medicina pensa sul serio di poter sostituire la natura? Cosa sarebbe cambiato alla struttura sanitaria se si fosse potuto risolvere il problema economico – organizzativo del “posto” (e forse si poteva) e mantenere in vita Charlie, ad esempio, dando il tempo e l’assistenza necessaria a quei due genitori di accettare di lasciarlo andare? E qui la Rigoli risponde dicendo: “Protrarre questi trattamenti non ha alcuno scopo, significa solo procrastinare un decesso inevitabile e facendo soffrire senza alcuno scopo”.

Ecco, è questo con cui non sono d’accordo!! Decidere che quella vita così com’era, compresa quella sofferenza, fosse “senza scopo”. Questo non è accettabile per un cattolico. Nessuno può decidere l’esistenza o meno del senso della vita di un altro, anche se non lo percepisce per nulla, anche se le evidenze reali spingono tutte a dire che non c’è un senso. Gesù Cristo non ci insegna questo. Ci insegna ad accettare che i tempi e i modi della morte restino decisi da Dio, attraverso la natura umana, che comprende anche la propria coscienza. Perciò fino a quando, quei due genitori non si fossero convinti che era giusto lascare andare Charlie, si doveva dare loro il tempo di impararlo.

Se vale il criterio che la Rigoli, sul finale, lascia trasparire, che cioè “di là” si vive meglio che “di qua”, e che quindi, anche per questo, era bene per Charlie morire, come si stabilirà una misura massima, oltre la quale la sofferenza umana possa autorizzarci a suicidarsi? E soprattutto, chi potrà deciderlo? Capisco che la Rigoli non accetti che si evochino scenari eticamente drammatici, e me ne dispiace, ma è difficile sottrarsi all’idea che l’orizzonte verso cui tende, il modo con cui questa vicenda è stata gestita, evochi parole pesanti.

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