«Nessuno vide, nessuno se ne accorse, nessuno si svegliò: tutti dormivano, perché era venuto su di loro un torpore mandato dal Signore». È un inciso contenuto nel cap. 26 del primo libro di Samuele, dove si racconta di Davide, della sua misericordia e – soprattutto – dell’aiuto di Dio verso chi è mosso da misericordia.
Oltre a ricordare altri torpori (vedi quello che Dio fa scendere su Adamo per mettere Eva al suo fianco, in Gen 2,21), questo inciso è straordinario per i tre blackout che nascondono Davide: «Nessuno vide, nessuno se ne accorse, nessuno si svegliò» sono tre non-azioni, impossibili da rendere con un’immagine di pari efficacia e impossibili da saltare, comunicabili solo con le parole e la delicatezza usate dal narratore biblico.
Noi oggi siamo quel narratore. Chiamati a ridire, con la stessa passione, le due storie del cap. 24 e del cap. 26, per mostrare che cosa significhi avere voglia di perdono, nonostante questa parola non vi compaia mai. Chiamati a raccontare e basta. Senza teorizzare, quindi senza bisogno di scriverci un libro o di farci un seminario di studi. Lo dico perché, tornato da poco da Monreale, ho avuto la sensazione – in mezzo a schiere di visitatori – che di tanti mosaici rammentiamo a malapena i titoli, perdendo di vista le storie che le figure sintetizzano.
Ovvio che, nel passaggio da un racconto a un riquadro, seppure bellissimo, molto della storia si perda: il tempo – nell’arte – si condensa in un’istantanea, che spesso coincide con la scena madre, la più luminosa, la più simbolica, per estrarne subito il significato.
Ma questo non aiuta a comprendere i passi che ha da fare chi perdona. A capire bene in che cosa consista questo dono esagerato, al quale non si è nemmeno tenuti. Questo dono tanto più alto della giustizia.
I due racconti del primo libro di Samuele rischiano di sembrare i resoconti di due beffe, ordite ai danni del re Saul, che per invidia ha trasformato Davide in nemico, dopo essergli stato amico e suocero. In realtà non sono prese in giro, quelle di Davide, ma gesti altissimi di grazia, di rinuncia a colpire, con i quali mostra la sua superiorità morale, perché per due volte, pur avendo l’opportunità di far fuori Saul, gli lascia salva la vita. Tuttavia, oltre alla magnanimità, c’è pure una furbizia (o, meglio, una volontà di educare), perché Davide non si limita a non colpire, non si accontenta di evitare un gesto negativo: in entrambe le occasioni sottrae qualcosa a Saul, per fargli notare quanto gli fosse andato vicino e quanto poco ci volesse per colpirlo a morte. Il perdono, quindi, come non-esercizio del potere: «Avrei potuto farti del male e non l’ho fatto» è l’unico vanto possibile di chi perdona.
Tale superiorità, di cui Davide è consapevole, anziché essere tenuta nascosta tra i pensieri, viene esibita con intenti pedagogici, proprio per contrapporre un’altezza a una bassezza. Ma se, in un primo tempo, il re sembra aver compreso la lezione, in fretta la rimuove. Così il racconto mostra un altro aspetto del perdono, difficile da dire in una definizione: cioè che, inteso come cura, il perdono non funziona, è una medicina debole, impotente, che non insegna nulla, non riuscendo a evitare la ricaduta in tentazione. Come diceva frère Roger Schutz, «non si perdona per interesse, per esempio perché l’altro cambi. Sarebbe un calcolo che non ha nulla a che vedere con la gratuità dell’amore. Perdonare, è perfino rinunciare a sapere cosa l’altro se ne farà di quel perdono».
Il primo racconto ha persino qualcosa di comico, poiché Saul, di ritorno da un attacco ai Filistei, si ferma nell’oasi di Engaddi (che si trova in un deserto di roccia, non di sabbia) e, mentre i suoi si dissetano, si apparta in una grotta a fare cacca. «Vi entrò per coprire i suoi piedi» (1Sam 24,4): un modo sublime di non dire ciò che stava per fare, spostando l’attenzione sulla tunica che, quando cala a terra e copre i piedi, lascia scoperto il sedere. Il pudore nel parlare di cose intime condiziona pure la traduzione Cei, che rifiuta al lettore l’elemosina di una nota per dire il significato di coprire i piedi, forse per paura di sporcare la Bibbia.
Così Davide, senza farsi notare, approfitta della situazione per tagliare un lembo del mantello di Saul, che il re – per comodità – aveva appoggiato nelle vicinanze.
Davide, però, si astiene dallo «stendere la mano su di lui»: è lo stesso verbo usato per l’angelo che ferma Abramo mentre sta per sacrificare Isacco («Non stendere la mano contro il ragazzo», Gen 22,12), perché sa che «il suo signore» (così lo chiama, con la “s” minuscola) è «il consacrato del Signore» (con la “s” maiuscola). Avvertire la sacralità altrui è una motivazione importante per dare il perdono. Non si perdona solo per compassione. Ed è più facile il perdono, quando – ad esempio, tra i coniugi – c’è stima: occorre un concetto altissimo dell’altro, ben più grande del suo peccato, inconfrontabile.
Certo, ciò che Davide offre sa ancora di grazia regale, tipica dei capi di Stato; di qualcosa che si concede e non si regala. Ma che col perdono ha già un legame, se non altro perché fa sempre imbestialire qualcuno. Il gesto di Davide, infatti, come succede ogniqualvolta si perdona, è illogico, innaturale e isola persino dagli amici, perché chi fa regali smisurati passa sempre per stupido: «a stento dissuase con le parole i suoi uomini e non permise loro che si avventassero contro Saul» (1Sam 24,8).
Però il gesto – per quanto demenziale possa sembrare – già possiede una nobiltà, una capacità di essere più alti della giustizia (in questo si avvicina al perdono), appunto per questa consapevolezza della sacralità dell’altro (come a dire: “Manco ti sfioro perché, se sei importante per Dio, lo sei anche per me”).
E Davide non solo lo pensa: lo proclama. Tant’è che, uscito dalla grotta, si butta in ginocchio davanti a Saul, faccia a terra, e, chiamandolo «padre mio», gli mostra il lembo di mantello tagliato, come segno di pietà. In più lo esorta a riconoscere nel gesto l’assenza di male e di ribellione, promettendo che anche in futuro la sua mano non sarebbe mai stata contro di lui. Il re ne è edificato e, chiamando Davide «figlio mio», gli riconosce una giustizia maggiore della propria: «Tu sei più giusto di me, perché mi hai reso il bene, mentre io ti ho reso il male» (1Sam 24,18).
Poi, seppur perdonato, Saul ci ricasca e rinnega le parole dette a Davide, facendo di nuovo prevalere l’invidia per le grandi qualità del giovane. E gli ridà la caccia, per farlo fuori.
Il secondo episodio avviene nel deserto di Zif (1Sam 26), quando Davide – di notte, con un compagno – penetra nell’accampamento di Saul e, raggiunto il re mentre questi sta dormendo profondamente, impedisce al compagno di ucciderlo, limitandosi a prendere la lancia e la brocca d’acqua poste accanto al capo di Saul.
Anche stavolta, si tratta di un’appropriazione a fini pedagogici. Ma con una novità, rispetto al cap. 24: il ricordo dell’aiuto divino a chi perdona volentieri. Se i due uomini si allontanano indisturbati, non avviene per caso né per la loro abilità, ma grazie a Dio. E qui c’è il bellissimo inciso, citato all’inizio: dove si coglie l’importanza della voce narrante, del punto di vista di un esterno… a dire come l’uomo misericordioso riceva sempre un sostegno. Infine, arrivato in cima a un’altura, Davide grida agli uomini di Saul di andare a riprendere la lancia del re, rimarcando – un’altra volta – di non aver voluto stendere la mano sul «consacrato del Signore».
Si potrebbe osservare che ci sono due posture necessarie al perdono: la prima delle quali è restare alti. Ossia non scendere in basso, non cadere nella tentazione di punire. Tanto nel deserto di Zif, come a Engaddi, il male che poteva essere non c’è stato: gli oggetti che Davide prende, i trofei che conquista, non sono prede di guerra; sono oggetti simbolici che, da una parte, valgono ben poco, ma che, dall’altra, sono simboli di una vittoria morale, quella della misericordia sulla giustizia. Questi oggetti dicono che non punire, non fare del male, astenersi dal male, ovvero ciò che sembra un’incapacità, o una mancanza di potere, è – al contrario – una grande capacità, un grande potere. Poter perdonare non è una resa, un cedere, ma un restare superiori…
La seconda postura è un restare distanti: nel deserto di Zif, i metri che Davide mette tra sé e Saul confermano la distanza tra la misericordia e la colpa. È da notare come, alla prima lettura della VII domenica del tempo ordinario (anno C), che narra il gesto di Davide, faccia seguito il Salmo 103 (102), che celebra la misericordia e la pietà del Signore: «Non ci tratta secondo i nostri peccati / e non ci ripaga secondo le nostre colpe. / […] Quanto dista l’oriente dall’occidente, / così egli allontana da noi le nostre colpe». Ecco la distanza a cui mettere le colpe altrui: in altre parole, la superiorità del peccatore rispetto al peccato.
I due racconti mostrano quella che Paul Ricoeur chiama «la logica di sovrabbondanza» di Gesù. Il perdono non fa giustizia (anzi, secondo la logica della giustizia, è spesso visto come un’ingiustizia bella e buona); è un di più senza contropartita, persino un qualcosa di stupido (secondo un certo modo di pensare), che si dona senza aspettare nulla in cambio, senza condizioni: puro regalo senza ritorno (perdono = dono moltiplicato per). Anche la fedeltà è così, deve essere così, non si dà per un patto.
Attenzione: non si vuole sminuire la giustizia. Si vuol dire che, se la giustizia è una gran bella cosa, da apprezzare e perseguire, il perdono è un passo oltre, qualcosa di ancora più bello. Perché, come recita un aforisma che gira nei social, «quando si perdona, non si cambia il passato: si cambia il futuro». Se riteniamo il perdono come una grazia che, una volta fatta giustizia, si può concedere o non concedere, viene sempre posto dopo. Invece papa Francesco, l’8 dicembre 2015, inaugurando il Giubileo straordinario, ha detto una cosa nuova: «Anteponete la misericordia al giudizio». In altri termini: se la misericordia non si mette in gioco subito, la giustizia porta a giustiziare. Intesa come un prezzo da esigere, porta a far percepire il perdono solo come uno sconto, o una riduzione di pena, non come un dono.
L’arte ha provato a tradurre in figura queste due grandi storie – ci si è messo pure un certo Rembrandt – ma con risultati poco memorabili, che dimostrano la grandezza del racconto (quando è ben raccontato, s’intende).
E, mentre qualche artista ha osato rappresentare Saul nella grotta, qualcun altro ha steso un velo o non ha ben capito che cosa il re stesse facendo. Resta il fatto che il perdono è sempre molto difficile da immaginare…
Ma se inizia da una non-vendetta, da un non far ripagare all’altro il prezzo che costui ci fa pagare, ovvero da un mostrarsi più alti della sua bassezza, esistono figure di perdono che l’arte contemporanea ha colto.
La più celebre è il Lanciatore di fiori di Banksy, che resta antagonista, a volto coperto, mentre getta fiori al suo avversario: se non altro evita di rappresentare una banalissima stretta di mano, buona solo per le foto-ricordo o per dire «Scordiamoci il passato».
Il Lanciatore ha un precedente – nel ’77 – nella celebre foto di Tano D’Amico che inquadra una ragazza, anch’essa a volto coperto, capace di opporre alla polizia solo i propri occhi, magnifici. Che è un dirsi contro, ma senz’armi. Al di là del fatto che la foto sia anche un simbolo delle lotte di quegli anni, la cosa straordinaria – per fortuna colta da Tano – è la non-violenza della giovane, il suo opporre bellezza a bruttezza, in un periodo in cui tanti (vedi Brigate Rosse) rispondevano alla violenza con altra violenza.
Intendiamoci: con queste due opere non si rappresenta il perdono, non siamo ancora al suo livello. Ma c’è il passo che lo precede, il voler restare alti rispetto a chi ti ha fatto una bassezza. Ben vengano dei fermo-immagine di questo tipo, dove si coglie l’importanza di non scendere al livello di chi ti offende, reagendo semmai con un gesto spiazzante.
Favoloso che si trovi in una foto l’Arte!!
COSA guardano quegli occhi con intensità, cosa fissano??
Oggi lo si puô vivere solo con un animale, tipo un cane, o un bambino:
La giovane gurda fissamente gli occhi del Carabiniere.
E lo interroga..
E interroga NOI tutti.
Notarella a margine: in bolognese si dice: “Bela fórza, amazèr oun ch’al chega”.