Tra le virtù cardinali, la temperanza è forse quella che più direttamente tocca il mistero della persona. Se la prudenza guida il discernimento, la giustizia costruisce il legame sociale e la fortezza sostiene nelle prove, la temperanza lavora silenziosamente dentro l’uomo: ordina i desideri, integra le passioni, dona equilibrio interiore. Non a caso i filosofi antichi la intesero come enkrateia, dominio di sé, e i Padri della Chiesa la riconobbero come custodia dell’ordo amoris.
Ma in una prospettiva personalista, la temperanza rivela una dimensione ulteriore. Essa non è solo misura interiore, ma anche condizione relazionale: un “governare se stessi” che rende possibile il dono di sé agli altri. Emmanuel Mounier ricordava che la persona non è mai chiusa in sé, ma apertura alla comunione. La temperanza, allora, non è virtù intimista o isolata: è il cammino che impedisce al soggetto di essere schiavo delle proprie pulsioni, per diventare disponibile all’incontro, capace di rispettare e valorizzare la libertà altrui.
La filosofia classica lo intuiva già: l’intemperante non è solo prigioniero di se stesso, ma anche pericoloso per la comunità, perché inaffidabile, incapace di responsabilità. Aristotele sottolineava come la temperanza fosse la condizione per vivere secondo ragione, distinguendo ciò che è bene da ciò che è solo piacevole. Tommaso d’Aquino riprende questa intuizione, mostrando che la temperanza custodisce la capacità di amare in modo ordinato: la persona temperante non si dissolve nei suoi impulsi, ma sa orientare affetti e piaceri al bene comune.
In questo senso, la temperanza ha un volto profondamente comunitario. Essa è il contrario dell’egocentrismo che, gonfiando il proprio io, schiaccia gli altri. Al contrario, la temperanza insegna a “fare spazio”, a non consumare relazioni, a non ridurre l’altro a strumento dei propri desideri. Qui appare il suo legame con il personalismo comunitario: senza temperanza, l’io diventa tiranno e la comunità una somma di individui in competizione; con la temperanza, l’io diventa capace di dono, e la comunità si trasforma in luogo di comunione.
Questa virtù è quindi un principio politico oltre che morale. Una società senza temperanza diventa rapidamente intemperante: nei consumi, nella parola pubblica, nei conflitti che degenerano in violenza. Non è un caso che il personalismo abbia insistito sulla sobrietà come stile di vita sociale: la temperanza custodisce la dignità della persona, ma al tempo stesso fonda la giustizia e la pace. Jacques Maritain lo esprimeva con chiarezza: la libertà individuale non basta, occorre una libertà relazionale, cioè temperata, che diventa responsabilità verso l’altro.
Dal punto di vista teologico, la temperanza si radica in una verità ancora più profonda: l’uomo è creato come essere di desiderio, ma il suo desiderio trova compimento solo in Dio. Senza misura, i desideri si disperdono e la persona si smarrisce; con la temperanza, essi si ordinano e diventano apertura alla trascendenza. In questo senso, la temperanza è virtù “pasquale”: disciplina l’istinto non per spegnerlo, ma per trasfiguralo, per farne strumento di comunione e di amore.
Ecco allora il valore personalista di questa virtù: custodire la libertà della persona dal rischio della dispersione, restituirle unità interiore, e nello stesso tempo renderla capace di comunità. La temperanza non è un esercizio privato, ma un atto politico e spirituale insieme: libera l’uomo dal dominio dell’ego e lo apre all’altro, fino ad aprirlo a Dio.
Per questo, in un’epoca segnata dagli eccessi individualistici e collettivi, la temperanza è virtù rivoluzionaria. Essa insegna che la persona non si realizza consumando, ma donando; che la libertà non è assenza di limiti, ma capacità di scegliere il bene; che la comunità non nasce da individui che rivendicano, ma da persone che sanno temperare se stesse per poter costruire insieme.
In fondo, la temperanza è il nome discreto di una verità antropologica fondamentale: l’uomo non è chiamato a spegnere i suoi desideri, ma a ordinarli, per farne strada di comunione. Solo così la persona si compie davvero, e la comunità diventa casa dell’umano.
Se il cristiano deve prendere Gesù come punto di riferimento, credo che la temperanza sia una caratteristica tutt’altro che da attribuirgli. La sua missione di cambiare la cultura ebraica per riportarla ad una fede autentica non fa certo venire in mente la temperanza ma semmai il coraggio e la determinazione. Vengono in mente la cacciata dei mercanti dal tempio e la ribellione alla cultura della propria famiglia.
Si può parlare però di temperanza nei suoi dialoghi con i farisei e la pazienza nell’indirizzare la dura mentalità dei discepoli, è una temperanza che viene dall’amore.