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Il dramma del contagio che ci rinchiude in casa, paradossalmente, ci porta a una progressiva coscienza di “comune destino” di una specie che si salverà insieme, se riscoprirà certe leggi.
19 Marzo 2020

E’ una sorta di lunga ballata laica quella che Mariangela Gualtieri, poetessa e drammaturga cesenate, ci regala,  dando voce a un noi che si risveglia, quasi coscienza collettiva non ancora del tutto nota ad ogni mente del genere umano evocato.

Noi… un noi stordito, quasi riesumato, che sembra ascoltarsi nel dormiveglia di una prima alba mattutina, momento di limbo in cui affiorano a poco a poco verità nuove, ancora un po’ avvolte di brume, ma potenti come rivelazioni di verità, non solo spazi onirici che faticano a lasciarci.

In una moderna e libera metrica, vagamente ereditata dal genere classico della ballata (che era fatta di alternate stanze di endecasillabi e settenari con ritornelli ripetuti per il canto), Mariangela crea strofe lunghe a piacere, a seconda di quanto può sostenere il fiato di chi recita, e reinterpreta mirabilmente il concetto di ritornello.

Il primo, infatti, unico verso di una riga, appare come un sollievo dopo due lunghe strofe gentili come carezze e lucide come ragioni che spiegano perché ora quel noi si trovi lì, appunto a casa. Il ritornello è dunque “Adesso siamo a casa”, umile traduzione poetica di quel virale “Io-resto-a-casa” o “Restiamo a casa” che sta girando vorticosamente sui media e i social per il bene della salute pubblica.

Qui si respira, ci si arrende: adesso siamo a casa dopo che ci siamo fermati, e dopo aver capito “ch’era troppo furioso il nostro fare.” E così, dopo aver “agitato ogni ora”, stupenda immagine di una frenesia collettiva inarrestabile, e aver ammesso che fermarci non ci riusciva, ora capiamo che “andava fatto insieme”. Ma fermarsi era una “sorta di desiderio tacito comune, come un inconscio volere”; sublime qui la Gualtieri, quasi sacerdotessa laica della mente di quell’uomo inarrestabile: a lei, che presta voce al nostro noi, la capacità di comprendere che forse la “nostra specie ha ubbidito e fatto entrare”… Ma cosa è entrato? “Un salto di specie – dal pipistrello a noi”… Ed ecco che la lirica ci regala uno dei suoi alti passaggi luminosi: la possibile causa di questo virus trasmesso da un animale all’uomo si trasfigura in metafora poetica, quasi catene spezzate di una violata legge da troppa frenesia, che ha sconvolto e “spalancato”… Solo al male? “Forse, non so”, di fatto “ora siamo a casa” proclama il ritornello tormentone, che sa librarsi nella profezia più bella di questo vaticinio mattutino:

 

 

È portentoso quello che succede.

 

E c’è dell’oro, credo, in questo tempo strano.

 

Forse ci sono doni.

 

Pepite d’oro per noi. Se ci aiutiamo.

 

 

E dunque qui, il noi di prima cede il passo all’idea di “specie”, di sentirsi “specie ora e come specie adesso deve pensarsi ognuno”. Il dramma del contagio che ci rinchiude in casa, paradossalmente, ci porta a una progressiva coscienza di “comune destino” di una specie che si salverà insieme,  se riscoprirà certe leggi.

La profezia di prima, quella delle pepite d’oro pronte per noi solo se diventiamo aiuto reciproco, si apre qui in un lungo e lirico concorrere di immagini, realmente solo umane, come un bravo maestro spiegherebbe ai suoi bambini delle scuole elementari.

C’è infatti una storia del mondo di cui qui inizia la narrazione semplice e soave insieme: c’è una terra “viva per davvero” animata da “un pensiero che non conosciamo” e che si muove anche lei, forse, e obbedisce a una legge che lega “l’universo intero” come “noi – proprio come ogni stella – ogni particella di cosmo”.

Insieme… insieme ci sentiamo parte di un creato immenso, creature tra creature, in un “ardore di vita” che ammette anche “la spazzina morte a equilibrare ogni specie”.

E così da una parte noi, specie, organismo e dall’altra legge, equilibrio, misura… tutte parole chiave che dondolano su un’altalena lenta tra vita e morte, perché “non siamo noi che abbiamo fatto il cielo”: è questa la coscienza che quel noi deve apprendere da questo dramma.  Siamo creature, creature qualunque sia il concetto di creatore che abbiamo in testa, sia che gli diamo un nome per fede o che non glielo diamo affatto.  E così come creature, siamo tornati anche ad essere bambini: di nuovo invitati a stare a casa perché “l’hanno fatta grossa, senza sapere cosa e non avranno baci, non saranno abbracciati”. La punizione più grande di quel noi gremito dei nostri volti bambini è appunto essere privati della relazione affettiva, delle coccole quasi di un genitore arrabbiato, che si nega agli abbracci desiderati. In questo dolore di privazione allora forse si inizia a comprendere il valore di questa “frenata che ci riporta indietro”, alle leggi delle antiche madri.

Torna ancora la legge, una legge delle madri antiche matriarche, che hanno inventato gesti e archetipi validi per ogni tempo, e consolazione perenne anche nell’assenza della relazione vitale. Pare dirci, la Gualtieri, che ci sono gesti di sempre, gesti inventati dal femminile che genera e che rende viva la casa, che anche noi, ora che stiamo qui, possiamo ripetere per sentirci meno soli senza baci e abbracci. Gesti femminili pregni e vitali, che ci piombano addosso dai primi riti tribali: “fare per la prima volta il pane”, come “tingere d’ocra un morto”… ancora ritorna la morte coi suoi riti, oggi in qualche modo perfino tragicamente negati o trasformati. E “ancora guardare bene una faccia”, “cantare pian piano perché un bambino dorma”… commozione somma di una lentezza recuperata se “saremo insieme”, come specie e come organismo che ha il volto di quel NOI. Il tutto in una stretta di mano, “semplice atto che ci è interdetto ora”, ma astensione che ci guadagnerà “una comprensione dilatata”, con una mano che “più delicata starà dentro il fare della vita”.

Infatti “adesso lo sappiamo quanto è triste stare lontani un metro”… Cosi si chiude la ballata laica di Mariangela Gualtieri, mi auguro scaldandoci un po’ il cuore, in questo tempo che ci fa tutti figli di una specie nuova, quella che forse avrà capito cosa davvero è “oro”.

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