La tenerezza

Se questa è la prospettiva dell’economia della salvezza - scrive Papa Francesco - dobbiamo imparare ad accogliere la nostra debolezza con profonda tenerezza. Il maligno ci fa guardare con giudizio negativo la nostra fragilità, lo Spirito invece la porta alla luce con tenerezza
9 Aprile 2022

Una squisita manifestazione dell’amore è la tenerezza. La tenerezza è la capacità di esprimere l’amore nelle piccole cose, nell’umile gesto di un sorriso, di un abbraccio, di un bacio, di un fiore, di un bicchiere di acqua “fresca”, come sottolinea con tenera delicatezza Gesù nel Vangelo (Mt 10, 42). La tenerezza è un’espressione di profonda, delicata dolcezza che nasce dall’amore e che troviamo in grado eminente in Dio che, come una Madre, ci ha generati e ci rigenera continuamente col Suo Amore.

Di quante premure non ci circonda il Signore? Egli ci “trae a Sé con legami di bontà, ci solleva alla Sua guancia” (cfr Os 11, 4), come fa un Padre con il suo figlio piccolino, perché possiamo respirare il Suo Amore e sentirne il calore. Ci ha donato il Suo Figlio Diletto perché ci rivelasse questo amore gratuito, preveniente e appassionato per noi Sue creature. Ci ha resi figli nel Suo Figlio e, nella Sua morte di Croce, ci ha redenti per renderci partecipi della Sua Gloria, affinché la nostra gioia fosse piena.

Dio è tenerezza. Se noi non arriviamo a percepire la tenerezza dell’amore di Dio, in Gesù, per ognuno di noi, mai potremo capire cos’è l’amore di Cristo. Dio si china con tenerezza anche sulle nostre fragilità. Spesso noi pensiamo che Dio faccia affidamento solo sulla parte buona e vincente di noi, mentre in realtà la maggior parte dei suoi disegni si realizza attraverso e nonostante la nostra debolezza. “Se questa è la prospettiva dell’economia della salvezza, scrive Papa Francesco, dobbiamo imparare ad accogliere la nostra debolezza con profonda tenerezza. Il Maligno ci fa guardare con giudizio negativo la nostra fragilità, lo Spirito invece la porta alla luce con tenerezza” (Papa Francesco, Patris Corde).

La ferita dell’egoismo, che ci portiamo dentro, viene sanata solo con l’amore. Se ci fidiamo e affidiamo a Dio, Egli ci risana. Perciò riconoscersi piccoli e bisognosi di salvezza, è indispensabile per accogliere il Signore. È il primo passo per aprirci a Lui. Spesso, però, ce ne dimentichiamo. Nella prosperità, nel benessere, abbiamo l’illusione di essere autosufficienti, di bastare a noi stessi, di non aver bisogno di Dio.

Riconoscersi piccoli è un punto di partenza per diventare grandi. Se riflettiamo bene, noi maturiamo non tanto in base ai successi e alle cose che abbiamo, ma soprattutto nei momenti di lotta e di fragilità. Lì, nel bisogno, cresciamo; lì apriamo il cuore a Dio, agli altri e al vero senso della vita. Quando ci sentiamo piccoli di fronte a un problema, piccoli di fronte a una croce, a una malattia, quando proviamo fatica e solitudine, non scoraggiamoci. Sta cadendo la maschera della superficialità e sta emergendo la nostra radicale verità: la nostra piccolezza che, lungi dall’essere un ostacolo, è invece un’opportunità.

Proprio nella fragilità scopriamo quanto Dio si prenda cura di noi. Le contrarietà e le varie situazioni che rivelano la nostra fragilità, sono occasioni privilegiate per fare esperienza del Suo amore. Chi prega con perseveranza, sa bene che la tenerezza di Dio verso di noi, nei momenti bui o di solitudine, si fa ancora più tangibile. Nella preghiera il Signore ci stringe a Sé, come fa un Padre col suo bambino. Così diventiamo grandi: non nell’illusoria pretesa della nostra autosufficienza – questo non fa grande nessuno – ma nella fortezza di riporre nel Padre ogni speranza. Proprio come fanno i piccoli.

“Il Figlio di Dio – scrive Papa Francesco nella Evangelii Gaudium – nella sua incarnazione, ci ha invitato alla rivoluzione della tenerezza!” (EG, n. 88). Impariamo a lasciarci amare da Dio, ad aprire il nostro cuore per accogliere la tenerezza del Suo Amore, a lasciare che Lui si faccia vicino e ci accarezzi. Allora saremo anche noi capaci di compiere gesti di tenerezza, piccoli gesti che non fanno rumore e che spesso non sono appariscenti, ma che arrivano diritti al cuore del prossimo, destandone lo stupore e accendendo una fiamma di amore e di gratitudine a Dio da cui proviene ogni bene.

Il nostro prossimo non ha bisogno tanto dei nostri “atti di carità” quanto della “carità dei nostri atti”, ha bisogno cioè di percepire l’amore che scaturisce dal nostro essere e si esprime in un servizio gioioso, gratuito, che dà sempre di più di quanto l’altro possa chiedere o desiderare. “L’amore infatti, o è eccessivo, o non è amore” (Ermes Ronchi).

 

 

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