Aggiungi un prete a tavola

La condivisione della quotidianità di una famiglia consente al ministro di Dio di entrare «nel mondo».
1 Giugno 2010

Dalla mensa eucaristica al tavolo di cucina, dai paramenti sacri alla tovaglia a scacchi. Si annuncia ai figli «Indovina chi viene a cena?» e  si aggiunge una sedia in più per il parroco o per il prete amico. Che sorpresa, più gradita di molti regali!
Per lui, certo, ma anche per la famiglia che finalmente può apprezzare insieme alla pastasciutta («niente minestrine, oggi») il gusto feriale, domestico e saporoso, del sacerdozio.
Con il tiramisù di scorta della nonna, saltano fuori ricordi e gag, affiorano noie e gioie: una rivelazione per i figli adolescenti («non pensavo che quel don fosse così sciallo…»), una ricarica duracell per le pile del nostro curato di campagna: «Adesso devo proprio andare alla riunione decanale, ma un giorno ne riparliamo, eh…», si congederà con la riconoscenza di chi si è trovato straordinariamente bene in quella famiglia che gli ha fatto provare una sana nostalgia della sua.
«Vieni e vedi». Ecco allora la proposta indecente, ma non troppo. A conclusione dell’Anno Sacerdotale, che culmina con l’invito di Benedetto XVI a migliaia di confratelli a Roma, perché non prendersi l’ impegno settimanale, fisso come tutte le cose importanti: «Aggiungi un prete a tavola…»
Può essere il lunedì a pranzo, o la domenica sera libera da riunioni… scelga lui quando vuole (non è più ospite, ma familiare), purché diventi un’abitudine settimanale. Senza regalini di circostanza, perfino senza tiramisù.
Provare per credere. È condivisione di una quotidianità che consente al ministro di Dio di entrare «nel mondo» e ascoltarne le voci: le tensioni padri-figli per un banale ritardo, le uscite del Grande Fratello, qualche stanchezza nel rapporto di coppia.
Ma stappando il vinello d’occasione si libera lo stress da giornata storta dello stesso parroco, costretto troppo spesso a non mostrare alcuna macchiolina sull’abito da super-don.
Arricchito nella sua fragilità, il parroco s’immerge nella cura-famiglia, si fa ascoltare, consolare se occorre. E offre nello stesso tempo quel personale risvolto d’umanità che nulla toglie al suo specifico operare «in persona Christi», richiamo dell’Anno Sacerdotale. Il quale è davvero «circostanza provvidenziale» – come auspicava il card. Bagnasco nell’ultima prolusione – se ci lascia in eredità anche quest’attenzione alle relazioni infrasettimanali con i nostri preti, che finisce per esaltare la complementarietà delle due vocazioni, sacerdotale e coniugale.
Anzi, a proposito di vocazione, chissà che essa non possa diventare un tema teologicamente «narrato» davanti al dessert alla domanda «ma tu come sei diventato prete?». E perché non estendere almeno una tantum l’invito a cena anche ad un seminarista che possa immergersi all’interno di una famiglia italiana media.
Mission impossible, il prete dal posto fisso a cena? Basta non farsi condizionare dal brusio altri parrocchiani (anzi: «perché non lo invitate anche voi?») o dal chiacchiericcio tipo fiction su don Matteo: massima libertà, di fare, accettare o rifiutare l’invito.
Ma quella conversazione casalinga conclusa dal budino – in molti lo hanno già sperimentato – diventa uno spazio di «formazione permanente» per il prete, modello frugale di «aggiornamento in servizio». E antidoto alla solitudine segnalata dal prof. Giorgio Campanini in una lettera ad Avvenire sulla prevenzione della pedofilia: «Alla fine ritengo che la grande “ricetta” sia quella dell’amicizia e della vicinanza. Assicurare a presbiteri e religiosi autentiche amicizie laicali – maschili e femminili – è il migliore antidoto contro la presenza di un male con il quale anche la Chiesa, anzi soprattutto essa, è chiamata a misurarsi».

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