Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Il primo piano di lettura del brano odierno è già palese nelle parole di Gesù: la contrapposizione tra il rispetto formale della legge scritta (delle consuetudini, …) e l’adesione della vita allo spirito dell’alleanza con Dio. A proposito di legge scritta e di come evolve il suo ruolo nella fede ebraica, con competenza di gran lunga maggiore della mia (ovviamente), ha scritto ieri Gilberto Borghi.
Le polarità sono chiare, possiamo sintetizzarle nelle categorie religione e fede. Ciascuno può suddividere il “materiale religioso” tra i due contenitori e, facendolo, si può interrogare sui contenuti a cui tiene di più.
Nella categoria “religione” ci sta bene la tradizione, nel senso di tradizioni cristallizzate e consolidate fino a diventare norma. E cosa scriveremo come polarità opposta? cosa scriveremo per non squilibrare la bilancia già nella scelta delle parole? L’eccedenza creativa che viene, o può venire, dallo Spirito. Per distinguere la genuinità di questa eccedenza ci sono le parole di discernimento della comunità dei credenti.
Un versetto dalla prima lettura “Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla” ci instrada nella comprensione del Vangelo “Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini”. Come si diceva sopra, la sussistenza di una comunità di fede non può fare a meno di esplicitazioni, chiarificazioni, precetti; quanto meno canoni che regolino la vita della comunità unita dalla stessa fede. Molto probabilmente Gesù allude a parole umane (e, con le parole, strutture) che, di gradino in gradino, crescono fino a diventare un fardello insostenibile, un ostacolo o zavorra o, semplicemente, un orpello inutile (e siamo tornati alle spigolature di domenica scorsa). In questo modo il discorso della fede vissuta in comunità scivola sul versante religione, nel senso di organizzazione della pratica religiosa.
Fin qui la mia povera riflessione sul vangelo domenicale, tuttavia non posso nascondere che altre parole mi ha accompagnato, o meglio tormentato, per tutta la settimana: le parole di Gilberto (sempre lui!) in morte di Gino Strada. “Tu sei stato così bravo da liberarti presto dal bisogno di me, e mi hai permesso di restare in te come desiderio di bene per tutti. Questo è davvero di pochi. Ma questo è il canale più diretto e limpido attraverso cui io lavoro nei cuori delle persone, anche se a parole non mi riconoscono.”
Non tocca a me fare esegesi delle parole di un compagno di cordata qui su VN, un amico. Ma posso confessare che queste parole, che Gilberto attribuisce al Signore come rivolte a Gino Strada, hanno lasciato il segno. Qui il binomio fede-religione, che spesso fa accapigliare noi gente di chiesa, è stato ampiamente superato. Il tema, evidentemente, è quello della salvezza eterna, della visione felice di Dio (e della vita) quando sarà terminato il pellegrinaggio terreno. Un tema che sta a cuore a tutti i credenti. Condividendo la lettura di Gilberto, una domanda mi rimaneva in gola. La religione non basta, nel senso che la pratica religiosa potrebbe non essere espressione genuina della fede; se non “serve” neanche la fede, di cosa parliamo? Se tutto si dissolve in filantropia, che ci stiamo a fare qui, a scrivere su VN? Vorrei fare chiarezza a me stesso, e spero di non annoiare il lettore.
Il capitolo 25 di Matteo ci dice che per entrare nelle felicità del Signore, non bastano i bollini delle pratiche religiose, non serve il timbro dell’appartenenza cristiana. Purtroppo, noi cristiani non sempre abbiamo una visione chiara a questo proposito. Una volta acquisito questo insegnamento, le pratiche e le appartenenze vanno dunque abolite? Nel dato di esperienza personale ho cercato di darmi una risposta.
Nella seconda lettura leggiamo “Accogliete con docilità la Parola che è stata piantata in voi e può portarvi alla salvezza.” È una frase importante, se viene ripresa anche dalla preghiera colletta. Noi nulla possiamo dire riguardo il mistero della vocazione cristiana: ad alcuni il messaggio del Vangelo non arriva, ad altri ancora arriva e non trova accoglienza formale… e poi ci siamo noi, quelli che hanno accolto il seme e che la lettera di Giacomo definisce “primizia delle sue creature”. Piuttosto che ossessionati dalla “raccolta dei bollini” delle pratiche religiose, noi siamo quelli sedotti dalla Parola ascoltata. Il credente in Gesù confessa di non bastare a sé stesso e di aver trovato in un Altro la pietra angolare dell’esistenza, l’orizzonte di senso.
In questa confessione di insufficienza trova un varco anche il bisogno di un pizzico di religione. La religione, con i suoi canoni/precetti, come pedagogia collettiva per la fede. Solo un pizzico, perché non tolga slancio alla fede, ma pure la religione serve. Almeno per me e la mia povera fede è così.
Certamente che la religione serve e prima viene iniziata la conoscenza più solida diventa , e come ceppo di fuoco acceso dove attingere e fare esperienza di fede.Una formazione alla fede diventa roccia che non fa cadere la casa quando nel futuro si vivono problemi rimasti nascosti nella cenere. Quella formazione resta nel cuore come cosa preziosa cui è molto importante avere per ricorrere nei tempi fatti difficili, quando si verifica distanza nel modo di vivere per essersi fatti coinvolgere da un modo di pensare diverso,Quella formazione è stata vissuta con persone il cui ricordo rimane indelebile, che ci sono stati a fianco dai quali abbiamo ricevuto prove di fede, introduzione a un concetto di libertà, alla importanza di un vivere e ricercare la verità, e con questa affrontare e superare frontiere di opposti giudizi. Una sacca da avere sempre pronta dove rovistare a trovare coraggio, speranza e amore