Anno B – XXVIII domenica del tempo ordinario – Mc 10, 17-30
Mio padre faceva il commerciante di seta. Da quando avevo 9 anni lo seguivo spesso nei suoi viaggi fino a Palmira e ritorno. A 19 anni, lui morì in viaggio e io lo piansi per giorni, ma poi dovetti continuare il suo lavoro. In eredità mi lasciò anche una fede limpida e sicura. Mi recitava sempre il Salmo 128: “Beato l’uomo che teme il Signore e cammina nelle sue vie. Vivrai del lavoro delle tue mani, sarai felice e godrai d’ogni bene…”
Io sono sempre stato una persona concreta, coi piedi per terra. Gli affari mi andavano bene; non avevo bisogno di truffare e rubare sul peso; pagavo le decime senza sconto; tutti gli anni celebravo con devozione Pesach, Yom Kippur e Sukkot. E ringraziavo sempre Yahweh di avermi fatto nascere Ebreo, di essere in salute e di poter godere della vita in tutte le sue forme, sotto la sua benedizione.
Però ero tormentato da una certezza: prima o poi sarei morto. E quando lo pensavo mi invadeva l’angoscia e si aprivano tante domande: “Che ne sarà di mia moglie e dei miei figli? E che sarà di me? E dei miei beni?” Leggevo la Torah secondo le indicazioni dei Sadducei, ma non trovavo alcuna luce alle mie domande. Così provavo a credere all’idea di finire nel nulla, ma mi spaventava davvero e non mi convinceva per niente.
La prima volta che sentii parlare di lui avevo 31 anni, 12 anni fa, circa un anno prima della sua morte. Si sparse la voce che avesse risuscitato la figlia di un capo della Sinagoga di Cafarnao. Stavo appena partendo da Gerusalemme, e quella notizia continuò a frullarmi in testa per tutto il viaggio di andata e ritorno. Lui poteva ridare la vita? Se era vero, allora poteva anche sapere se e come vincere la morte. Avrei potuto incontrarlo e parlargli? O forse non mi avrebbe dato ascolto, in fondo chi ero io?
Quando rientrai decisi di affidare i miei affari al mio amministratore e lo andai a cercare, perché quella notizia aveva trasformato il mio tormento in una speranza. Quando vidi il suo gruppo, mi avvicinai correndo, mentre lo chiamavo: “Maestro, maestro buono, ti devo parlare. Ascoltami!” Ma non sembrava aver sentito. Così, mentre li raggiunsi continuai a urlare la mia domanda: “Maestro buono, cosa devo fare per avere la vita eterna?”. Ma non sentiva. Mi feci largo un po’ a spintoni e nella foga, caddi in ginocchio proprio davanti a lui.
A qual punto lui si fermò, si voltò verso di me e mi vide. “Perché mi chiami buono?” Rimasi molto sorpreso della sua domanda. E poi aggiunse: “Nessuno è buono, se non Dio solo. Conosci i comandamenti?” E mentre li elencava sentivo una gioia salire, perché aveva preso sul serio la mia domanda, mi ascoltava davvero. Ma sentivo che la sua risposta non era sufficiente, e allora presi coraggio e gli dissi: “Io tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia infanzia”. Volevo fargli capire che io, da sempre avevo cercato di essere “buono”.
A quel punto lui stette in silenzio qualche istante. Poi mi fissò dritto negli occhi, con uno sguardo così intenso e caldo, accogliente e diretto a me, tanto che mi sentii profondamente capito nel mio tormento e avvolto dalla sua forza. Una sensazione che non avevo mai provato prima, che mi si è scolpita nella memoria e non smette di parlarmi. Me lo ricordo come se fosse ora, era quasi l’ora sesta, in piena luce, i suoi occhi avevano qualcosa di affascinante, tanto che mi sentii come se mi conoscesse da sempre.
Poi, d’improvviso la sua voce ruppe quell’attimo: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi”. Non potete capire! Non potete immaginare: un colpo al cuore, mi sentii pugnalato al petto e rimasi senza fiato. No, quella richiesta no! Era proprio l’ultima cosa che mi aspettavo. Per una vita intera avevo fatto del mio meglio per essere fedele al lavoro di mio padre e alla Torah. Pensavo che davvero la mia ricchezza fosse il segno della benedizione di Dio. Non poteva chiedermi questo! Tutto, ma non questo.
Mi sentii mancare la terra sotto i piedi, e la tristezza allagò il mio viso e il mio corpo, spegnendo tutta la speranza. Restai senza parole e sentii tutti gli sguardi dei suoi amici pesarmi sulle spalle. Ebbi solo la forza di fare due passi per uscire di scena e caddi di nuovo a terra, come se fossi morto. Ma perché? Perché dovevo buttare via tutto quello che avevo. Seguirlo magari sì, ma avrei potuto essere utile anche a lui con i miei beni. Perché dovevo vendere tutto? Ma allora che senso aveva aver rispettato con fatica e sacrifico tutte le leggi della Torah, per poi dover rinunciare a ciò che mi ero guadagnato, che mi teneva in piedi e che pensavo venisse da Yahweh?
Mentre ragionavo tra me e me sentivo pezzi di frasi che lui pronunciava, discutendo di me con i suoi amici: “difficilmente un ricco entrerà nel Regno… ma non impossibile a Dio” Ma perché allora la Torah dice: “se metterai in pratica tutti questi comandi che oggi ti do, il Signore tuo Dio ti farà sovrabbondare di beni in ogni lavoro delle tue mani, nel frutto delle tue viscere, nel frutto del tuo bestiame e nel frutto del tuo suolo”? Se io avessi venduto tutto, cosa avrebbe potuto fare Dio che ora non poteva fare? Io avevo già fatto tutto quello che dovevo! Non capivo. Ma subito dopo: “… cento volte quaggiù, insieme a tribolazioni e la vita eterna”. Allora esisteva una vita eterna!! Ed io non potevo entrarci perché avevo creduto alla Torah? No, qualcosa non tornava.
Rimasi turbato e sconvolto per più di un mese. Poi pensai che tutta questa cosa stava avvelenando la mia esistenza e che forse, lui non era davvero un buon maestro. Mi rassegnai, ripresi la mia vita e il mio lavoro. Stranamente però, quello sguardo e quell’attimo tornavano alla mia mente, come un seme che non voleva morire.
Poi, quasi un anno dopo, tornando da Palmira, andavamo veloce per arrivare in tempo, perché l’indomani era il grande Shabbat di Pesach. Ad un certo punto, verso l’ora nona, una ruota del carro prese un colpo molto forte su un enorme sasso in mezzo alla strada. Ci ribaltammo di lato. E io sentii un terribile dolore nella schiena, come se una lama mi avesse tagliato in due. Mi ritrovai a terra, ma le mie gambe non si muovevano più.
Cominciai a piangere, a urlare, colpendo la terra con i miei pugni e maledicendo il giorno che ero nato e chi mi aveva voluto. La mia vita stravolta in un attimo! Tutti i miei beni non sarebbero serviti più a nulla per ridarmi le mie gambe. Rabbia, disperazione e tristezza si mescolarono insieme e d’istinto mi venne voglia di maledire anche Yahweh. Ma, inaspettatamente, quell’attimo che avevo in memoria ed i suoi occhi mi tornarono alla mente, aprendo una piccola speranza.
Ci misi qualche mese a ritrovare un minimo di serenità. E cominciai a pensare che tutto quello che avevo fatto nella mia vita, non avesse più alcun valore: sforzarmi di rispettare le leggi della Torah e accumulare ricchezza per la mia famiglia, come segno della benedizione di Yahweh era stato inutile. Mi sentivo spaesato e confuso. Ma più stavo così, più quel tarlo di speranza che mi dava la memoria di quell’attimo e dei suoi occhi continuava a tornarmi in mente e a tamponare l’orrore e la disperazione dell’altro attimo, con il suo dolore.
Poi un giorno, mi ero fatto portare nella piazza vicino al portico di Salomone, con altri infermi come me. All’improvviso tre uomini scesero dal portico e arrivarono in mezzo alla folla. Tutti si misero in fermento: chi si inchinava a baciare i loro piedi, chi voleva toccare le loro mani, e chi sperava almeno di farsi coprire dalla loro ombra. Quando arrivarono vicino a me, cercai di guardarli in faccia, ma avevo il sole contro. E quando la loro ombra mi coprì li vidi e riconobbi uno di loro: quel Pietro, uno dei suoi amici. Mi fissò e rividi lo stesso sguardo di quell’attimo, lo stesso amore, la stessa forza.
E mentre lo riconobbi un calore invase la mia schiena e tutto il mio corpo. Mi toccai le gambe e le sentii. Mossi la destra e riuscii a spostarla. Provai ad alzarmi e sentii che potevo farlo. Lacrime, lacrime! Gioia, energia, pienezza e voglia di ringraziare. Pietro mi vide e capii e mi disse: “Nel nome di Gesù sei stato salvato”.
Oggi ho consegnato la mia vita a Lui e ho capito che il problema non era la Torah, né i beni, ma il mio cuore attaccato a queste “false” salvezze, con la pretesa che io potessi spingere Dio a “ripagarmi” per la mia rettitudine morale.
I beni accumulati sono ricchezze frutto di lavoro, da impegno e doti personali, benessere condiviso con il prossimo ma giustamente l’aspirazione umana ha in se il desiderio di goderne non per un tempo a termine. Gesù però parlava di dare vita non per le cose accumulate ma di quanto di “buono” la persona sente, ha cuore spendersi, non in obbedienza a un comando o regola. Se malato, non godi guidare la macchina, gli affari se affidati all’altrui discernimento fanno l’uomo dipendente, una condizione di peso e per questo emarginato, come gli operai licenziati diventati in esubero all’azienda. E’ dalla Bontà del Padre, che il Figlio opera cambiando il cuore degli uomini, in bene per la società, e ognuno è artefice diverso secondo i propri talenti. Per questo a ns.volta e nel nome di Gesù che ci salviamo se faremo lo stesso.
L’altra sera Crozza ha detto che IL problema è il libero arbitrio( lo ho detto anche io al convegno VN citando COME lo usò Caino..,😭)
Mi pare di poter aggiungere leggendoti che senza la adesione del Cuore qualunque scelta resta posticcia, come i pensieri che frullano nella mente.
Aprire la porta allo Spirito, aderire a Lui con tutto il sè e poi lasciar fare a Lui, ABBANDONARSI…
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Ora che questo giudizio non ha più senso in questa mia misera situazione, non posso che accettare il suo consiglio di imitarlo nell’essere figlio come lui e non il figlio che ho sempre voluto essere io.
Ho sempre voluto essere e sono stato un mercante come mio padre, benestante come lui ma ora non posso più essere né voler essere, non posso più essere come mio padre, non sono più nessuno, è come se fossi già morto. I beni che ho accumulato mi consentono di sopravvivere ma non mi salvano da questa mio stato in cui è come se non fossi più in vita, senza più poter volere, senza più speranza.
Se non posso essere come mio padre sarò sempre, però, suo figlio in questa vita e figlio del padre nei cieli per la vita eterna, per l’eternità. È una convinzione che ho ma non so spiegare da dove venga, se non con il ricordo di quello sguardo che mi proponeva di essere figlio come lui. Le sue parole erano troppo dure perché troppo lontane dal mio modo di giudicare e dal modo di giudicare della mia gente.
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