Finalmente metto piede in paese. Sono le 11,40, dopo più di 5 ore di cammino. Oggi mi fermo qui. La mia spalla sinistra ulula per una tendinite che da due giorni mi accompagna. La scritta sul muro dice “bar y albergue” e la freccia gialla indica a destra. Chiedo alla barista se c’è un negozio in paese. “oggi chiude alle 11 perché è domenica e l’albergue apre alle 1,30”. “E c’è una messa stasera?”. “No, la messa c’è adesso alle 13 all’Ermita di s. Roque. Sa, il prete ha sei paesi dove dire messa…”. Non mi resta che sedermi e aspettare. Mangio quello che ho con me: un po’ di pane, prosciutto, un pomodoro e una pastina.
Bercianos del real camino è un paese di 200 abitanti, in mezzo al giallo-terra del paramo leonese, una pianura infinita di grano, orzo, vento e cielo. Null’altro. Molte case sono fatte di mattoni di terra e paglia pressata. Le strade sono deserte. Due bambini gironzolano con la bici, un cane dorme all’ombra, il sole picchia, ma oggi è buono, fa solo 28 gradi. Suona la campana della chiesa e mi incammino. Dai vicoli escono delle nonnine tutte colorate e uomini col bastone e il cappello, e si incamminano nella mia stessa direzione. Sullo spazio davanti alla chiesa 6 o 7 donne ridono e chiacchierano piacevolmente. Sono l’unico forestiero. Entro in chiesa, é vuota. Semplice, luminosa, in mattoni a vista rossi e le panche nuove in legno chiaro, come le travature del soffitto. Mi siedo nell’ultimo banco appena dentro, manca un quarto d’ora.
Piano piano entrano anche alcune donne. Segno di croce, bacio alle mani e in ginocchio, nelle panche davanti, ripetono giaculatorie consunte dall’uso. Poi si siedono e in religioso silenzio aspettano, qualche cenno di saluto e nulla più. Entra anche qualche uomo, si toglie il cappello, segno di croce e genuflessione, poi a sedere in fondo alla chiesa. Le camicie stirate e i pantaloni buoni danno colore alla pelle bruciata dal sole e dalla fatica. Una donna ha una gonna rossa a pallini neri con uno scialle bianco di pizzo che si confonde coi capelli. Entrano due famiglie con figli adolescenti. I ragazzi si salutano, ma restano con i propri genitori. Entra una donna con un passeggino, con marito e altri due figli. Alcuni la salutano e sorridono al bimbo piccolo. Entra un signore di mezza età, saluta con calma e attenzione molti presenti. Entra una suora e si siede tra due donne che la festeggiano con un largo sorriso.
Il signore di mezza età arriva in presbiterio, apre un armadio, estrae camice, stola e casula, e si veste per celebrare. Due donne accendono i ceri e sistemano i fiori. E quando la vestizione è verso la fine, dalle prima file, senza nessun comando, le donne intonano un canto lento e solenne. Tutti lentamente si aggiungono a cantare; persino gli uomini in fondo, vicino a me, con le mani callose e stagliuzzate, le unghie un po’ nere, cantano fieri e convinti. Non ci sono chitarre, né organi, ma tutti cantano fino all’ultima strofa. Il prete sorride e con gli occhi cerca il saluto di molti. “En el nombre del padre, del hijo y de lo espiritu sancto…”
La chiesa è lunga non più di 30 mt, ma è piena. Circa 120 persone. Terminato i riti di introduzione il prete si siede e non dice nulla. Dal centro della Chiesa una donna sale al pulpito e legge la prima lettura, dal profeta Isaia. Poi il salmo. Poi un papà dal fondo sale anche lui e legge la seconda lettura, dalla lettera ai Romani. Non uno che parli, borbotti o commenti. Suona un cellulare, viene spento immediatamente e nessuno ci fa caso. Poi il vangelo, Mc 4, la parabola del seminatore. All’omelia il prete parla senza microfono, interloquendo con alcuni bambini e giovani, che rispondono immediatamente. Gli adulti sorridono, commentano un po’ e poi annuiscono. Come sembra semplice spiegare questo vangelo in un terra così, lo sanno bene cosa vuol dire seminare e qual’è la differenza tra terreno buono, pietra, sassi, radici…
Terminata la predica, non più di 7-8 minuti, il credo. Poi dall’assemblea, ad alta voce, alcuni fedeli fanno le preghiere. Non sono preparate, si capisce. Una madre prega per i bambini che soffrono, un anziano davanti a me, coi capelli bianchi il collo rigato dalla fatica, prega per i nipoti che se ne sono andati via da lì perché non c’è lavoro. La suora prega per la chiesa e il papa. Una ragazza prega per i giovani perché un futuro possa esserci per loro. Sarà la fatica o l’effetto cammino, ma li sento veri e soprattutto con tanta tanta dignità. Poi alla consacrazione un silenzio denso e solenne, nessuno si muove, nessuno fiata.
E allo scambio della pace ognuno trova un modo suo per dire pace al vicino. Chi abbraccia, chi da la mano, chi aggiunge un bacio, chi saluta dal posto. Alcune donne si fanno mezza chiesa con la voglia evidente di dare pace a qualcun’altro senza fretta, senza ritualità. Il prete spezza l’ostia, si comunica, sistema l’altare e si siede. E intanto un’anziana e una mamma salgono all’altare, prendono due vassoi e distribuiscono la comunione. Tutti cantano non so cosa, sulla melodia di “Cristus vincit”.
All’uscita dalla chiesa, il sagrato si riempie di voci, suoni, saluti, abbracci. Mi scosto un po’ e mentre li guardo mi ricordo che in greco “liturgia” significa “azione di popolo”. Da 50 anni frequento chiese e partecipo a messe, ma poche volte mi è capitato di sentire, come oggi, il sapore della liturgia. E mentre mi giro per avviarmi all’albergue sento una voce: “Hola peregrino!” Mi volto e un signore piccoletto con i baffi grandi mi viene incontro, mi da la mano e dice: “Gracias por su presencia”.