“Dove vuoi che andiamo a preparare perché tu mangi la pasqua?” (v. 12), Una domanda dei discepoli, che sembra essere solo di carattere organizzativo, apre questo brano che ci parla del valore del corpo e sangue di Cristo. Per chi è avvezzo un po’ al Vangelo sa che difficilmente il valore di questa domanda è solo quello che appare.
La cronologia dei sinottici lascia ipotizzare che questa cena sia il rito principale della celebrazione della Pasqua ebraica. Da bravi ebrei perciò, gli apostoli si interrogano con attenzione e valore sul luogo dove potranno celebrare il rito più rilevante della loro tradizione. Non è perciò una domanda banale: il luogo deve essere all’altezza del valore che lì si celebra. E, in effetti, il luogo non sarà banale: una grande sala al piano superiore arredata e pronta per ospitare un evento unico nel suo genere, assolutamente sorprendente, che va ben oltre le attese degli apostoli stessi.
“Lo spezzò, lo diede loro e disse: prendete, questo è il mio corpo (v 22); questo è il mio sangue del patto, messo fuori per la moltitudine” (v 24 alla lettera). Lc 22,20 e 1 Cor 11,25 esplicitano molto bene ciò che Mc lascia intendere: è arrivato un nuovo patto, unilaterale, inaudito e inatteso, nel quale si compiono e si superano tutti i patti antichi, frantumati dal peccato di Israele. Quello di Cristo è un patto diverso, sui generis: Dio ha deciso di amare fino in fondo l’umanità e di recuperarla totalmente dal suo peccato, solo attraverso il gesto radicale e assoluto di amore, la consegna totale di sé all’uomo. D’ora in poi, a prescindere da ciò che l’umanità farà, Dio non toglierà mai più il suo amore alla sua creazione.
E da buon ebreo, Gesù sa che offrire il corpo e versare il sangue significa offrire tutto sé stesso, senza lasciare fuori nulla, perché corpo, vita, anima, cuore, sangue, mente, in realtà per un ebreo indicano la stessa cosa, l’uomo intero, solo visto da punti di vista diversi. Il corpo non è perciò solo il contenitore della persona, ma la sintesi vivente che ne costituisce l’identità, la storia, la concretezza, mentre il sangue è l’energia profonda che lo fa vivere, la vitalità, la pro-tensione all’altro che lo anima.
Si scopre così, che la risposta alla domanda inziale degli apostoli, sta proprio nel corpo e nel sangue offerti. Il luogo dove mangiare la pasqua, dove partecipare al nuovo patto unilaterale che ci salva non è più un tempio fisico, ma il corpo-sangue-persona di Cristo. In quel luogo si ribalta finalmente quell’atto predatorio della coppia primordiale con cui l’uomo ha preteso di afferrare Dio; quel “prese e mangiò” di Eva (Gen 3,6) si ribalta nel “prendete e mangiate” di Cristo (Mt 26,26), A dire che quello stesso desiderio di essere Dio, oggi può essere finalmente realizzato, non rinunciandovi, ma portando fino in fondo quello stesso impeto di assolutezza, quella stessa brama di vita che allora ci ha rovinati, e che ora ci salva perché partecipiamo all’amore di Cristo.
Lo stesso Cristo lo dichiara: “Ho bramato ardentemente di mangiare questa pasqua con voi”, (Lc 22,15) a dire come anche la concupiscenza, la brama di vivere, trova il suo luogo di salvezza se diventa energia a servizio della donazione di sé. Tutto ciò che viviamo corporalmente, perciò, viene assunto nella possibilità dell’amore gratuito che si dona. Nulla dell’istinto, delle passioni, dei bisogni, dei desideri, delle pulsioni, dei sentimenti, delle emozioni, delle decisioni, nulla di noi viene estromesso dalla salvezza di Cristo. Nell’accettare questo amore, anche l’uomo, per intero, viene reso capace di amore fino al dono di sé. Per noi, allora, il luogo in cui possiamo “mangiare la pasqua” diventano il nostro corpo e il nostro sangue, afferrati da Cristo.
Se accettiamo di “condurre sotto (entrare) in (dentro) la città” (v 13 alla lettera), cioè di avere il coraggio di scendere là dove le persone vivono realmente, si incontrano, si scontrano, si amano e si odiano, il nostro corpo e sangue, afferrati da Cristo, diventano il luogo dell’incontro-scontro umano che da consistenza alla vita e permette l’inizio del cammino per mangiare la pasqua con Cristo.
Se non rifuggiamo ciò, “ci verrà davanti un uomo che sostiene la pioggia raccolta dentro ad argilla cotta” (v 13 seguendo l’etimo di brocca e acqua). Giobbe (10,9; 5,10) e Isaia (64,8; 55,10) ci ricordano che l’uomo è fatto di argilla e che la pioggia è il dono di Dio che consente la vita. A dire che nell’incontrare in corpo e sangue le persone, come e dove davvero vivono, l’umano si manifesta nella dimensione sorgiva, istintiva e primordiale, come prima traccia in cui Dio si nasconde e si rivela. Quindi il corpo e il sangue nostri, come quelli di Cristo, divengono la prima parola che Dio ci dice, la prima traccia che va accolta e ascoltata per poter mangiare la pasqua con Cristo.
Seguendo questa traccia potremo arrivare al cospetto di “colui che si prende cura dei legami” (padrone di casa v 14 letterale), cioè il centro profondo dell’essere umano, quello che la Bibbia chiama cuore, laddove Dio incontra l’uomo e l’uomo incontra sé stesso. E qui il corpo e il sangue diventano capaci di intenzionalità libera che, attirata dalla bellezza del dono del corpo e sangue di Cristo, orienta l’uomo alla bellezza dell’offrirsi, e lì finalmente la pasqua di Cristo e la nostra si riunificano.
Ma non è finita. Quel cuore, ci indicherà il “luogo dove ci si può lasciare andare” (v 14, etimo di stanza), in cui “la terra viene elevata” (v. 15 etimo di piano superiore), e diviene un luogo ordinato, bello e stabile, metafora abbastanza esplicita del corpo risorto. E qui, finalmente, il corpo e il sangue potranno essere all’altezza di venir trasfigurati compiutamente in amore puro, diventando, come Cristo, consegna totale e radicale di sé al Dio della vita, pasqua perfettamente realizzata.
Ma tutto ciò avviene nel “primo giorno degli azzimi”. L’azzimo del pane in Egitto, ricorda agli Ebrei l’essere partiti in fretta, cioè il non avere avuto il tempo per procedere alla costruzione delle proprie procedure di salvezza, perché qualcosa di inatteso, il faraone che decide di mandarli via e la pressione degli egiziani sul popolo (cfr. Es, 12,34) lo impedisce. Ma proprio in questo modo si realizza una salvezza inattesa, senza intervento umano, ben oltre ciò che l’uomo può sperare di fare da solo. A dire che il nostro corpo e sangue ci ricordano che noi stessi siamo dono inatteso, che la nostra radice ci precede, ben prima della nostra volontà, che la nostra vita non è frutto di noi stessi: esistiamo gratis, solo per un atto di amore immotivato ed eccedente che Dio ci ha regalato creandoci, e che ha ripetuto nella sua pasqua.
Tu sai che io sostengo che Dio ha mandato Gesú anche x far capire all’uomo CHI veramente è.
Posso interpretare il tuo scritto come un invito a considerare anche il proprio corpo come SACRO in quanto soggetto e parte della Rivelazione?
In Quella ultima cena, Gesù si rivela agli apostoli in pienezza di vita, di essere Persona che si offre in sacrificio per loro. Certo in quel momento non può è stato da loro compreso, in quanto un fatto in divenire, ma in seguito loro stessi ripeteranno ad altri Questo è il messaggio Cristiano, un amore-dono, un amore che se necessario capace di sacrificare anche del proprio “io”. Quel “fate questo in memoria di me”, implica una condizione, che ciò corrisponda anche a una finalità di Bene che è del medesimo suo Spirito Un uomo e un essere umano, soggetto a passioni umane, per cui può essere indotto a ritenere bene quello che non è il vero nel pensiero di Dio, una disposizione a sacrificare magari molto di se stessi per un altro e a salvezza di quella Vita che ci salva. La Pace e’ un obiettivo che richiede questo spirito, il giogo della guerra imposto a sacrificare vite di civili inermi, non può essere via di Pace secondo il Dio della Pace.
La ricerca di Dio è motivata dall’esigenza di seguire una volontà che non è la nostra quando ci si rende conto che essa non ha la possibilità di indirizzare ciò che non dipende da essa ma da una volontà che ci è superiore. Si invoca la volontà di Dio perché ci è stata rivelata come una volontà di amore mediante il figlio; è una volontà che va oltre l’umana volontà di bene perché implica l’attesa che il desiderio di infinita libertà si possa saziare con la finitezza di un amore paterno e di un figlio che ama il padre e ne compia la volontà.
È già nela finitezza del corpo che ci rendiamo conto di ciò che ci è impossibile perché non dipende dalla nostra volontà per poi averne conferma nella relazione col prossimo prima ancora di arrivare all’intera umanità.
Fare la volontà del padre per noi è non altro che voler cibarsi all’infinito del corpo del figlio e superare la finitezza del nostro corpo.
Quel d’ora in poi, secondo me, attesta una nuova consapevolezza.
D’ora in poi, ora che sapete, ora che avete visto, non potete più comportarvi come i bambini, dovrete essere responsabili, come vi ho insegnato.
Il corpo e il sangue che definiscono ogni persona, vanno donati agli altri, perché tutto obbedisce alla legge del dono.
Dio c’è sempre stato, ma ora possiamo percepirLo più vicino, cioè semplicemente in noi, come noi in Lui.
Ciò che introduciamo nutrendoci diventa parte di noi, e in fondo ci trasforma. Siamo ciò che mangiamo, a volte si dice.
E allora, nutrirsi del corpo e del sangue di Cristo, significa assorbire il Suo nutrimento, la Sua Luce, e venirne trasformati.
Da persona separata, che pensa a sé come ad un’isola, a Essere umano che si versa nell’altro, in cui si riconosce. E pur distinto nella propria singolarità, così diviene consapevole di essere per sempre e da sempre, Uno con tutti insieme al Padre.