Datemi, per favore, un emozione

La cosa che mi disturba maggiormente nelle omelie è il senso di "distanza" enorme tra la vita di chi parla e quella di chi ascolta. Non si vede tanto nei contenuti, ma nello stile, nel non verbale, nel linguaggio. 
8 Febbraio 2019

 

“Oggi la predica è una delle cose più difficili per un prete, per questioni che spesso sono più grandi di lui”. Un mio amico, docente di teologia e parroco che spesso legge questo blog, così chiude una discussione di qualche giorno fa, provocata proprio dalla scelta del tema del mese. Credo abbia ragione. Perciò non me la sento di buttargli la croce addosso. Questo non significa che i preti siano esenti da colpe soggettive rispetto all’efficacia delle prediche. Significa invece, a mio parere, che ci sono anche condizioni oggettive che non li favoriscono, che affondano le radici in quella che una volta veniva designata come “preparazione remota” alla predica.

Intanto lo stile di vita. E’ difficile negare che ancora oggi i preti vengono formati a uno stile di vita “separato” dal resto dei fedeli. E questo input resta dentro a moltissimi di loro anche nello svolgimento del ministero. Nella loro settimana tipo è probabile che ci siano pochissime occasioni per vivere esperienze umane che, per i fedeli a cui poi fare la predica, sono invece quasi ordinarie: fare la spesa, sistemare casa, gestire i figli, vivere relazioni significative, prendere un caffè al bar, fare attesa alle poste, condividere un dolore di un amico o di un parente… Non si pensi sia banale, perché il fondo su cui si appoggia la nostra interpretazione della vita è costantemente provocato e smosso dalle cose banali di tutti i giorni, perché la vita è questa. E quando noi proviamo a parlare del senso della nostra vita, lo facciamo sempre a partire da questo fondo che giorno dopo giorno si sedimenta e finisce per dare la direzione alla nostra “teologia” della vita. 

La cosa che mi disturba maggiormente nelle omelie è proprio questo senso di “distanza” enorme tra la vita di chi parla e la vita di chi ascolta. E questo non si vede tanto nei contenuti, ma nello stile, nel non verbale, nel linguaggio. I contenuti posso anche prepararli e studiarli, lo stile e il non verbale parlano della mia vita. E se quella vita è su un altro pianeta rispetto a chi ascolta la comunicazione effettiva è difficilissima. 

Secondo. Lo stile di spiritualità. Io continuo ancora a vedere, soprattutto nei preti giovani (!), una spiritualità fortemente centrata sul pensiero. La loro formazione è costruita su un dogma non dichiarato: coltivare lo spirito è soprattutto un pensare. Il sentire e il percepire sono secondari, quasi sempre nel ruolo di mediatori tra il pensiero e la conseguente azione che si “deve” compiere. Ora, anche qui, credo sia difficile negare che invece la stragrande maggioranza dei fedeli che ascoltano le prediche vivono in modo diverso la loro vita e anche la loro dimensione spirituale, in un modo molto più legato alle emozioni e alle percezioni sensoriali e sentimentali. Questo non significa che si debba sfociare nel sentimentalismo, ma è evidente che la freddezza e l’aridità di molte prediche, anche levigatissime dal punto di vista teologico e linguistico, non può permettere di “arrivare” a chi le ascolta. 

Quando ascolto queste prediche devo fare uno sforzo davvero non piccolo per cercare di trasformare quel concetto mentale in una esperienza vissuta, in modo che l’emozione e la sensazione che vi si accompagnano inevitabilmente diano cuore e corpo a quel pensiero. E non sempre ci riesco, rendendomi conto che questo richiede una preparazione teologica e una capacità di riflessione che, purtroppo, pochi fedeli hanno. 

Terzo. Il ruolo ecclesiale. Nonostante tutto quello che il magistero ha detto e dice sul ruolo dei laici, oggi il prete è ancora il “perno” della vita della comunità. E’ innegabile. Lasciando da parte se questo sia o meno teologicamente fondato, è davvero difficile oggi, per un prete, evitare due derive, purtroppo evidenti. Da una parte rischia di essere il “padrone” della pastorale della comunità, aprendo le porte al clericalismo e al suo strapotere. Dall’altro rischia di essere il “factotum” delle attività. Credo sarebbe dimostrabile che la maggioranza dei preti passa più della metà del proprio tempo a fare cose che non sono di competenza specifica sua, ma sono la “supplenza” di una comunità che non c’è. 

Da questa posizione potrà mai essere possibile costruire delle omelie che raccordino veramente il Vangelo alla vita effettiva della comunità? Se tendo al clericalismo, finirò per definire io cosa sia la vita della comunità. Se tendo ad essere “factotum”, non ho realmente una comunità a cui parlare, a cui raccordare il Vangelo. Queste condizioni non sono responsabilità del singolo prete, ma della Chiesa in quanto tale. E quindi anche noi laici siamo chiamati a farcene carico. L’alternativa è quella del mio padre spiritualeche dice, con serietà, che certe omelie sono davvero una crescita spirituale, perché richiedono l’esercizio di alcune virtù cristiane: pazienza, fortezza, dominio di sé. Quindi danno modo allo Spirito Santo di lavorare in noi!

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