L’omicidio di Padre Cortéz e la società lacerata in El Salvador

Una morte 'ordinaria' in un contesto di estrema divisione sociale, in cui la Chiesa non vive alcuna particolare persecuzione, perché il sopruso è entrato nel tessuto lacerato della società.
14 Agosto 2020

In questi giorni è stata riportata da alcune testate di informazione cattoliche (da Vatican news a L’Avvenire, da Agensir a Fides) la notizia della tragica uccisione di Padre Ricardo Antonio Cortéz, rettore del seminario filosofico “San Óscar Arnulfo Romero” e sacerdote della diocesi di Zacatecoluca in El Salvador. È stato ucciso il 7 agosto sull’autostrada a colpi di arma da fuoco. La Conferencia Episcopal Salvadoreña ha subito espresso la sua ferma condanna e la sua costernazione con un comunicato che è stato condiviso, tra gli altri, anche dal Sinodo Luterano Salvadoreño. Oltre a condannare il gesto, i vescovi richiedono a gran voce che venga fatta la «dovuta giustizia», poiché i mandanti, gli esecutori e le cause di questo atto restano tutt’ora ignoti.

Indignazione e stupore vengono espressi per l’uccisione di «un uomo buono, affabile, integrato nella sua comunità e dedito alla formazione a all’insegnamento dei seminaristi come alla cura dei fedeli che seguiva»; tutti elementi che durante la guerra civile (1979-1992) sarebbero stati più che sufficienti per meritare l’attenzione degli squadroni della morte, che spargevano il terrore nelle zone rurali e povere in nome del governo. L’esplicito supporto degli Stati Uniti e della CIA alle forze anticomuniste si è concretizzata soffocando nel sangue qualsiasi tentativo di aggregazione popolare di tipo politico o sociale. I sopravvissuti raccontano che bastava andare in giro con una bibbia sotto braccio per essere accusati di essere comunisti. Molti religiosi, sacerdoti e catechisti caddero per questi motivi: Oscar Romero fu il più illustre, ma non certo il primo né l’unico.

Tuttavia nei successivi trent’anni la natura delle violenze è cambiata: l’uccisione di Padre Cortéz non ha caratteristiche politiche e non è che una goccia nel mare, per un paese che fra il 2015 e il 2018 ha registrato oltre cento omicidi e che sta vivendo un’importante escalation di violenza perpetrata dalle maras, le bande armate legate al narcotraffico e all’estorsione. La manodopera di giovani e giovanissimi viene reclutata attraverso le pandillas, piccole bande criminali in cui è facile entrare e da cui è difficilissimo uscire. Non si tratta di crimini a sfondo razziale o ideologico: il portale Numbeo, che raccoglie gli indici di costo della vita dei vari paesi del mondo, riporta come “basso” il rischio di subire aggressioni di questo tipo. Viceversa riporta come “alto” o “molto alto” il pericolo legato ai reati verso la proprietà, che spesso si concludono nel sangue: effrazioni, furti, vandalismo, rapine a mano armata. Già quindici anni fa, quando visitai il paese, ricordo lunghissimi fili spinati a sormontare i muri dei giardini. Ricordo addirittura una fiera dedicata al filo spinato e ad altri sistemi di sicurezza di bassa tecnologia. La proprietà, in El Salvador, viene difesa con violenza e con altrettanta violenza viene attaccata.

Nella carneficina del paese più violento dell’America Latina (insieme ai confinanti Honduras e Guatemala), la morte di un sacerdote è solo un dato percentuale, tanto da non attirare l’attenzione né delle cronache internazionali, né delle associazioni che si occupano di persecuzioni, come ad esempio Aiuto alla Chiesa che Soffre. A marzo 2018 è stato ucciso Padre Walter Osmir Vásquez Jiménez «mentre presiedeva attività proprie della Settimana Santa», dirà l’Osservatore Romano per avvicinare la sua morte a quella di Romero; a maggio 2019 Padre Cecilio Pérez, reo di non aver «pagato la quota», ha fatto sapere la Mara Salvatrucha, che ha rivendicato l’omicidio. Insomma, morti -per così dire- ordinarie in un contesto di estrema divisione sociale, in cui la Chiesa non vive alcuna particolare persecuzione, perché il sopruso è ormai entrato nel tessuto lacerato della società salvadoregna.

Quest’anno El Salvador celebra i quarant’anni dell’uccisione di Romero, omicidio che segnò un punto di non ritorno nella storia della resistenza armata e che diede il via libera alla persecuzione di quei religiosi che si schieravano con il popolo. Nello stesso anno vennero uccisi Padre Cosme Spessotto, quattro missionarie statunitensi (tre suore e una laica) e vennero massacrate 300 persone sul fiume Sumpul dai paramilitari. Le persecuzioni erano in realtà iniziate almeno tre anni prima, con l’uccisione di Padre Rutilio Grande nel 1977 e sono culminate nel 1989 con il massacro dei gesuiti nell’Univesidad del Centro America. La guerra, che ha causato circa 75.000 morti, si è conclusa con il supporto dell’ONU nel 1992, ma i delitti non hanno ricevuto giustizia, solo un condono che ha lasciato come conseguenza una netta polarizzazione politica e fortissimi rancori interni.

La Chiesa salvadoregna non è più formalmente schierata, ma c’è ancora qualcuno al suo interno che si trova a condividere il destino di un popolo oppresso. Mentre l’attuale conferenza episcopale invita, con le parole del Vangelo, a non avere paura e confidare in Cristo, risuonano ancora le parole ben più nette di San Oscar Romero: «Stiamo con quelli che subiscono le torture. Sappiamo che molti stanno soffrendo nelle loro case dolori, umiliazioni… soffriamo con quelli che hanno sofferto tanto. Siamo davvero con voi e vogliamo dirvi, fratelli, il vostro dolore è il dolore della Chiesa».

In guerra aperta appare forse più facile schierarsi: oppressori contro oppressi, ricchi contro poveri, Chiesa di potere contro Chiesa di popolo. Ma ormai la guerra è entrata nella testa delle persone ed è più difficile da estirpare, perché gli schieramenti sono meno riconoscibili. Se un’organizzazione criminale offre occupazione e speranza ai poveri, mentre gli organismi governativi sono corrotti per salvaguardare gli interessi delle classi dominanti, è chiaro che il lavoro politico e sociale da fare è infinitamente più grande e complesso di una volta. C’è ancora la forza e la volontà per compierlo? Ancora una volta, in El Salvador, la Chiesa è chiamata a prendere una posizione, che stavolta non solo è difficile da scegliere, come lo fu alla fine degli anni ’70, è difficile proprio da riconoscere.

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