A proposito dell’elezione di Donald Trump, Papa Francesco, con il suo modo di parlare franco, ha detto: «Non do giudizi sulle persone e sugli uomini politici, voglio solo capire quali sono le sofferenze che il loro modo di procedere causa ai poveri e agli esclusi» (Intervista a “Repubblica”, 11 novembre). Confermando così la sua scelta di non interferire nelle scelte politiche dei governi laici, regolarmente eletti, ma di continuare a difendere con determinazione poveri ed esclusi.
Carcerati, vittime della tratta, senza tetto… Papa Francesco ha chiuso il Giubileo della Misericordia con una raffica di incontri – e quindi di parole – che lanciano un messaggio inequivocabile. La misericordia non è un fatto intimistico, che ciascuno vive dentro di sé all’interno di un percorso personale che, attraverso il perdono, lo fa sentire meglio. La misericordia è semmai qualcosa che cambia le vite e cambia anche le strutture, perché si declina in una serie di parole – inclusione, solidarietà, dignità, liberazione, giustizia – che chiedono sì, conversione, ma anche pensiero e azione. E, alla fin fine, scelte politiche.
«La misericordia è quel modo di agire, quello stile, con cui cerchiamo di includere nella nostra vita gli altri, evitando di chiuderci in noi stessi e nelle nostre sicurezze egoistiche», ha detto durante l’udienza del 12 novembre. Gli altri sono persone da amare come le ama Dio, senza esclusioni, senza discriminazioni.
La conversione del cuore deve quindi farsi stile di vita, improntato all’accoglienza, sapendo che accogliere chi è escluso non è facile, implica fargli spazio in una vita – in tante vite di una società – che sono organizzate secondo modelli che escludono.
Proprio per questo la misericordia è più di uno stile di vita. Don Helder Camara diceva: «Se do da mangiare ai poveri, mi chiamano santo. Se chiedo perché i poveri non hanno cibo, mi chiamano comunista».
I poveri sono poveri perché viviamo in un mondo che attribuisce il primato al denaro, non all’uomo. Nel discorso per l’incontro con i Movimenti popolari del 5 novembre, si legge: «Chi governa allora? Il denaro. Come governa? Con la frusta della paura, della disuguaglianza, della violenza economica, sociale, culturale e militare che genera sempre più violenza in una spirale discendente, che sembra non finire mai. Quanto dolore e quanta paura!».
Con questa affermazione, papa Francesco si colloca nel solco di Pio XI, che parlava di «imperialismo internazionale del denaro» (Quadragesimo anno, 1931, 109); di Paolo VI che puntò il dito contro la «nuova forma abusiva di dominio economico sul piano sociale, culturale e anche politico» (Octogesima adveniens, 1971, 44); ma anche di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI che più volte hanno stigmatizzato i danni e i rischi del neoliberismo esasperato.
È sulla paura che il denaro e coloro che lo servono basano il proprio potere, ed è grazie alla paura che costruiscono muri, diffondono intolleranza, coltivano rabbia. «Quando sentiamo che si festeggia la morte di un giovane che forse ha sbagliato strada, quando vediamo che si preferisce la guerra alla pace, quando vediamo che si diffonde la xenofobia, quando constatiamo che guadagnano terreno le proposte intolleranti; dietro questa crudeltà che sembra massificarsi c’è il freddo soffio della paura», continua Francesco parlando ai movimenti popolari.
È la paura che ha spinto una manciata di abitanti di Goro, in provincia di Ferrara, a rifiutare ospitalità ad una manciata più piccola di donne e bambini che ne avevano bisogno. E che ha ispirato episodi analoghi in giro per l’Italia. È la paura che deriva dall’impoverimento e dalla precarietà cui una società troppo individualista e troppo competitiva ci condanna, ma che si è trasferita su quelle donne e quei bambini, vittime quanto e più di loro. Coloro che avevano paura di essere scartati dalla società, se la sono presa con coloro che erano già stati scartati. O, negli Stati Uniti, hanno votato per Trump. Ma il problema non sono le persone profughe o migranti, bensì il nostro modello di sviluppo. Infatti «Questo sistema atrofizzato è in grado di fornire alcune “protesi” cosmetiche che non sono vero sviluppo: crescita economica, progressi tecnologici, maggiore “efficienza” per produrre cose che si comprano, si usano e si buttano inglobandoci tutti in una vertiginosa dinamica dello scarto… Ma questo mondo non consente lo sviluppo dell’essere umano nella sua integralità, lo sviluppo che non si riduce al consumo, che non si riduce al benessere di pochi, che include tutti i popoli e le persone nella pienezza della loro dignità, godendo fraternamente la meraviglia del creato. Questo è lo sviluppo di cui abbiamo bisogno: umano, integrale, rispettoso del creato, di questa casa comune». E infatti, dice il Papa, «cosa succede al mondo di oggi che, quando avviene la bancarotta di una banca, immediatamente appaiono somme scandalose per salvarla, ma quando avviene questa bancarotta dell’umanità non c’è quasi una millesima parte per salvare quei fratelli che soffrono tanto? E così il Mediterraneo è diventato un cimitero, e non solo il Mediterraneo… molti cimiteri vicino ai muri, muri macchiati di sangue innocente».
Questo è il problema. Per cambiare si comincia dalla testimonianza e dagli stili di vita – che sono comunque il primo strumento per cambiare il mondo – ma poi bisogna avventurarsi sul terreno delle letture più approfondite dei segni dei tempi, della capacità di progettare, di immaginare una società diversa, di architettare ponti (e quindi comunità accoglienti), dell’impegno per ridare senso alla democrazia, rivitalizzandola con iniezioni di partecipazione popolare. Bisogna avventurarsi a stipulare alleanze con le altre religioni e con quelle parti laiche della società impegnate per una giustizia sociale, la cui mancanza ci sta portando all’implosione.
Bisogna, in questo senso, tornare a fare politica, quella politica che Paolo VI definiva “la più alta forma di carità”, sapendo che «finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri, rinunciando all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo le cause strutturali della inequità, non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva nessun problema. L’inequità è la radice dei mali sociali» (Evangelii Gaudium, 202).
La politica come forma di carità supera la rabbia per lasciare il posto ai sogni. Alle persone escluse, che ha ricevuto l’11 novembre, il papa ha detto che «un uomo o una donna sono molto poveri, ma di una povertà diversa dalla vostra, quando perdono la capacità di sognare, perdono la capacità di portare avanti una passione. Non smettete di sognare!». Abbiamo bisogno di sogni, e della capacità di trasformarli in progetti che aiutino a vincere l’iniquità. Se le nostre comunità raccoglieranno questa sfida, la Chiesa tornerà ad essere una presenza profetica nella società.