Chi non ricorda il grande Battiato? Una sua canzone, tra le più belle, s’intitola “La cura”. Mi è venuta in mente in questi giorni in relazione ad alcuni episodi letti, visti o ascoltati. Il 15 maggio, nella sua rubrica “Il caffè”, sul Corriere della Sera, Gramellini racconta di come una classe di ragazzini abbia salvato la propria prof. Dopo due giorni di assenza nessuno dei colleghi della docente, né la scuola, si preoccupa di questo strano comportamento immotivato e mai accaduto alla prof. I suoi studenti, che ne apprezzano molto le lezioni, sì. Fanno venti km in autobus e, non ricevendo risposta al campanello di casa, chiamano i carabinieri. Arrivano, sfondano la porta e trovano la prof. riversa per terra. Fortunatamente ora sta bene e ha ripreso l’insegnamento.
Un giorno prima, mentre scendo dall’auto nel parcheggio dove faccio la spesa, vedo una donna per terra proprio sulla porta d’ingresso del supermercato. La sua spesa che rotola ovunque e accanto a lei un immigrato senegalese la sta soccorrendo. Mi avvicino e provo ad aiutarla. Si rialza, nulla di grave. Viene da un paese dell’est, forse una badante. Raccolgo la spesa mentre il ragazzo senegalese si assicura che stia bene. Gliela riporto e mi dice che mancano due cose che aveva comprato. Provo a tornare a cercarle, ma la strada è pulita, come pure l’ingresso del negozio. La guardo e lei mi dice: “Hanno rubato me! Che mi aiuta solo immigrato come me, altri rubano”. Non ha voluto accettare che glieli ripagassi io, ma è tornata dentro, infuriata, a ricomprarli.
Irena, ragazza albanese che assiste mia madre in ospedale, mi racconta la scenetta di qualche giorno prima. La donna di fianco al letto di mia madre viene investita, verso le otto di mattina, da un infermiera un po’ “di corsa”: “Due delle quattro pillole le ha lei?? Noi non le abbiamo qui”. La donna fatica a capire. L’infermiera alza la voce e ripete la domanda. Irena, si volta e dice all’infermiera: “Guardi ieri mattina ero qui e le hanno dato quattro pillole, l’ho vista io”. “Mi scusi, non sto parlando con lei – risponde l’infermiera”. Nel frattempo la donna, ha capito, e dice: “Ha ragione la ragazza, ieri ne ho prese quattro”. E l’infermiera: “Signora, lei è arrivata stamattina qui, vede – mostrandole la tabella su cui si segnano i farmaci, vuota nella colonna del giorno prima”. “No, io sono qui da due giorni”. E Irena conferma: “Si, la signora è qui da due giorni, è vero”. L’infermiera, al limite della rabbia: “Ma insomma, sapremo o no da quando i pazienti sono in carico!!?? La tabella è chiara.”
A questo punto Irena stupita la guarda e scoppia a ridere. Cerca di trattenersi, ma l’infermiera lo vede e le ribatte con durezza: “Ma mi prende in giro?? Io sto lavorando qui, va bene??” E poi se ne va sbattendo la porta. Venti minuti più tardi entra un’altra infermiera e con grande disinvoltura dice alla donna: “Ecco queste sono le sue medicine, quattro pillole, le prenda come ieri. Ok? La saluto”. Irena guarda mia madre e scoppiano a ridere scuotendo la testa. Il signore che assiste la donna del terzo letto della stanza dice. “Robe da matti”.
Nella mia testolina bacata cerco un denominatore comune alle tre storie. Situazioni in cui, nel bene o nel male, si riconosce come la cura dell’altro non può mai passare dall’applicazione standard di un protocollo, codificato o meno che sia, in mano ad una istituzione deputata a ciò, ma da un coinvolgimento personale nella relazione, con la persona precisa che abbiamo davanti, che produce sempre un cambiamento nelle due persone, e non le lascia mai indifferenti come erano prima. La cura è sempre tra un io e un tu, mai in un astratto “si fa così”.
Secondo questa logica, quella del “protocollo”, del “A chi spetta occuparsene?”, la prof. abbandonata era in carico all’istituzione scolastica; la badante caduta era in carico ai commessi del negozio; la donna in ospedale era in carico al reparto di degenza. Ma le “strutture” preposte non si attivano. Apparentemente per mancanza di organizzazione, ma in verità per mancanza di “umanità”. Perché la mancata organizzazione è supplita dall’umanità degli studenti, del senegalese e di Irena. E questo significa che più avanza l’organizzazione della cura, più l’umanità è resa non necessaria. Questo è il punto: davvero l’organizzazione cerca il bene di quell’essere umano ben preciso, che ha un nome e un cognome?
Merce rara l’umanità, di questo tempi di “inferno” relazionale. Lo descriveva bene già nel 1960 C. S. Lewis: “Non esiste investimento sicuro: amare significa, in ogni caso, essere vulnerabili. Il vostro cuore è a rischio. Proteggetelo pure, avvolgendolo con cura in passatempi e piccoli lussi; evitate ogni tipo di coinvolgimento; chiudetelo col lucchetto nello scrigno delle regole, o nella bara del vostro egoismo. Ma in quello scrigno esso cambierà: certo non si spezzerà più, ma diventerà infrangibile, irredimibile. Infatti, l’unico altro posto, oltre il cielo, dove potrete stare perfettamente al sicuro da tutti i pericoli e i turbamenti dell’amore è l’inferno.”