La lettura qualche giorno fa dell”articolo di Massimo Franco sul Corsera: “I cattolici e l’unità (impossibile) da recuperare” mi ha sollecitato qualche riflessione generale sullo “storico abbaglio” citato dal giornalista.
Personalmente quelle parentesi nel titolo non le avrei messe. Nè tanto meno mi scandalizzo di fronte alla presa d’atto di tale impossibile unità politica dei cattolici, anche perché l’unità spirituale a cui siamo chiamati come comunità credente è ben più profonda di quel livello semplicemente culturale, sociale e politico al quale si fa riferimento. D’altronde il richiamo di Gaudium et Spes n° 43 mi è sempre sembrato importante: “nessuno ha il diritto di rivendicare esclusivamente in favore della propria opinione l’autorità della Chiesa.”
Ritengo tuttavia eccessivo parlare di rissa tra “spezzoni del mondo cattolico”, visto che in fondo si è trattato di un editoriale, quello dei Paolini, che non ha trovato la esplicita adesione di altre associazioni o movimenti cattolici. D’altra parte le reazioni stizzite di qualche singolo ciellino (Amicone, Formigoni ecc…) per certo non esprimono il sentire ufficiale del movimento di Giussani.
Ciò che invece mi interessa cogliere dall’ottimo articolo di Massimo Franco, è il riferimento ad una “crisi d’identità culturale” non ancora superata dopo la guerra fredda e ad un “involontario abbaglio storico” nell’immaginare un mondo unito o destinato a ricompattarsi. A mio avviso questo discorso va approfondito con la dovuta attenzione, specie in rapporto con la recezione del Concilio Vaticano II nel dibattito culturale all’interno della Chiesa italiana e soprattutto in relazione al modo di intendere ed interpretare il rapporto dei cattolici con il Potere ed il suo Limite.
Da quel che ho potuto apprendere negli anni – visto che a 10 anni mi interessavo d’altro – il Convegno di Loreto (1985) fu il vero spartiacque italiano nella recezione del dettato conciliare, fino ad allora oggetto di aspre polemiche; almeno a partire dalla lacerazione sulla cosiddrtta “scelta religiosa” dell’AC di Bachelet e fino alla cristallizzazione in un ampio dibattito tra mediazione e presenza che vide protagonisti intellettuali come Lazzati, Sorge, Giussani.
Sullo sfondo politico c’era una DC ormai incapace, dopo gli anni del boom, di governare una nazione modernizzata. In effetti erano esaurite le grandi spinte ideali del 1948 che avevano reso possibile l’irripetibile esperienza dell’unità politica dei cattolici: un Paese da ricostruire, una repubblica da fondare, una classe dirigente sobria e autorevole da proporre dopo un ventennio che aveva sfasciato il tessuto etico italiano. Iniziava quindi una lenta ed inesorabile degenerazione dello scudocrociato sotto la guida della cosiddetta “terza generazione” (quella di Forlani e De Mita).
Il tessuto ecclesiale viveva intanto un crescente distacco dal partito “unico” dei cattolici al quale restava, come “unica” ragione d’essere, l’anticomunismo che era stato carattere, sia pur importante, non essenziale per il suo nascere. Intanto associazioni e movimenti, a loro volta alle prese con la modernità e le spinte innovative conciliari, iniziavano a differenziarsi, staccandosi idealmente dalla balena bianca che non riusciva più ad interpretare le spinte popolari e rimaneva avviluppata nel clientelismo smodato che ne avrebbe consacrato la fine.
In questa cornice critica, a Loreto il papa polacco, con un memorabile discorso, consacrò in Italia una linea ecclesiale che è stata definita “cultura della presenza”, impersonata ed interpretata in questi anni da Cl sul fronte dell’associazionismo laico e da Ruini nelle gerarchie, con prassi operative che hanno segnato quella che Sandro Magister ha efficacemente definito come “chiesa extraparlamentare”. Su tali prassi operative mi piacerebbe soffermarmi, visto che ritengo che “l’abbaglio storico”, cui si riferisce l’articolo, tanto involontario non sia, trovando giustificazione nella situazione descritta. Infatti in questi anni “extraparlamentari”, dopo aver preso coscienza della crisi decritta, la Chiesa italiana è stata guidata sulla scorta di un preciso presupposto e di una concreta linea d’indirizzo.
Si è detto e scritto che il cattolicesimo in Italia, con la sua rete di associazione e parrocchie, godrebbe di (ampia) popolare diffusione nella società. La Chiesa italiana, anche alla luce della condizione favorevole non goduta in altri paesi occidentali, si è vista investita del grande compito storico di indicare l’esempio a cui tutte le altre chiese nazionali avrebbero dovuto guardare. Pertanto i vescovi hanno chiesto con insistenza ai cattolici italiani di testimoniare coerenza tra fede professata e vissuta, al fine di essere rilevanti (Ruini: meglio contestati che irrilevanti!) ed arrivare a guidare infine la società. Più concretamente in politica la CEI ha esortato all’unità i cattolici ovunque militassero, non più in nome dell’anticomunismo, ma per difendere alcuni valori irrinunciabili e/o non negoziabili che assumono a tratti i connotati di un programma simil-politico, senza aver paura di dettare la “linea”, come nel caso del referendum del 2005.
Tale analisi e la linea d’indirizzo adottata, se pur se parzialmente giustificabile nel confuso passaggio del 1992/1994, a me pare sia divenuta nel suo protrarsi il vero “abbaglio storico” volontario (non involontario!) della Chiesa italiana.
Intanto il presupposto è discutibile. Perché l’esistenza di un’ampia rete di associazioni, movimenti e, soprattutto, di parrocchie, dovrebbe essere sinonimo di un cattolicesimo popolare e diffuso? Il vangelo in effetti interpella le coscienze e l’esistenza di struttura fisiche non è indice di coscienze strutturate!
Il fine è poi altrettanto opinabile. Sicuro che i cattolici siano chiamati ad essere rilevanti e a guidare la società? È una opzione “di per sè” coerente col vangelo? È una opzione che necessità di chiarimenti e di un forte senso del limite del potere che forse è mancato?!
Il programma simil-politico proposto è infine francamente poco spendibile per organizzare una proposta politica efficace. Siamo sicuri che le priorità degli italiani siano i famosi valori non negoziabili?! Non è che forse dovremmo semplicemente prendere atto della irriducibilità della Dottrina Sociale della Chiesa ad un partito e ad programma politico?! Non è che forse dovremmo prender atto dei limiti delle scelte politiche nella formazione delle coscienze?
D’altra parte la semplicità del ragionamento enunciato, si è accompagnata purtroppo con una scarsa coscienza effettiva della complessità del cattolicesimo italiano attraversato da opinioni diverse che non possono ridursi alla semplice questione di rivalità tra sottogruppi enunciata da Franco.
Infatti, troppo spesso, per ovviare alle oggettive difficoltà nell’affrontare tale complessità, si è caduti in un efficientismo decisionista, sterile e burocratico, guidato da uno scarso senso del limite del potere. Troppo spesso si è agito pensando (intra e extra ecclesia) che la decisione adottata da chi abbia diritto a prenderla, basti “di per sé” a renderla attuabile, trascurando il grosso limite che ogni potere (politico, economico, magisteriale…) incontra nella impossibilità di coartare le coscienze. Gli esiti finali di questo processo, per il cattolicesimo italiano, sono sotto gli occhi di tutti: il fallimento tra gli scandali dei leader politici di Cl, gli scandali vaticani che hanno mostrato una Chiesa inerme e poco coerente, la copertura data al berlusconismo, le lotte per il potere ecclesiale e non, la marginalizzazione dell’associazionismo cattolico nel dibattito pubblico.
Concludendo, mi chiedo seriamente se non sia arrivato il momento di un bilancio franco all’interno del cattolicesimo italiano, non per tornare ad un dibattito ormai superato (presenza o mediazione?), ma per trovare nuove strade e nuove ragioni per una presenza “realmente significante” dei cattolici nella società italiana.