Il cucchiaio nella pappa

«Esisteva allora anche un sacramento dell'amore, si chiese, quello che si celebrava ogni volta che le persone si aiutavano a sopravvivere e quello che lei scopriva quotidianamente?»
13 Febbraio 2016

Incontrai Giorgia tra le scansie di un supermercato nel quartiere dormitorio di periferia, intenta a scegliere tra le confezioni di pannolini più economiche. Rimasi incantata da due particolari: la dolcezza con cui parlava al suo piccolino già issato sul carrello e la massa bruna di riccioli che aveva in testa, capaci di esprimersi quasi da soli. Non so come ci ritrovammo a scambiare qualche parola, ma dopo aver pagato alla cassa, decidemmo di sederci nel baretto vicino a prendere un caffè. Inspiegabilmente Giorgia come un fiume in piena iniziò a raccontarmi la sua storia, permettendo sempre ai suoi ricci ribelli di intervenire e dire la loro, e nel frattempo si scusava di rovesciare su di me, in fondo un’estranea, particolari tanto intimi della sua vita ma, ripeteva passandosi il dito indice sulle sopracciglia come a riordinarsi, “era come mi conoscesse da sempre”. Quando ripartì da Milano rimasi in contatto con lei via mail, perché anch’io ero stata profondamente colpita da lei, dal suo racconto, dalla sua ordinaria capacità in fondo di vivere una misericordia “straordinaria” dentro la Chiesa e forse, anche verso la Chiesa…

Dire, infatti, che l’esistenza di Giorgia era particolare sarebbe stato come svilire quello che a lei invece sembrava familiare e teneramente faticoso, così infatti amava lei stessa definire le sue giornate, “teneramente” faticose. Sì, perché era proprio la tenerezza il filo rosso che le sembrava unire tutto quello che aveva vissuto fino ai quei suoi pienissimi quarantacinque anni attuali. Si svegliava verso le sei del mattino, preparava il suo bambino di appena dieci mesi per l’asilo nido, correva al lavoro in una vicina struttura per malati psichiatrici, riprendeva suo figlio da scuola non oltre le quattro del pomeriggio, scambiava innumerevoli messaggi con la figlia grande che frequentava l’università in un’altra città, per farla sentire a casa… E infine si ritrovava a sera nel suo appartamentino al quinto piano, fatto di solo due stanze e di arredi decisamente vecchi, ma pieno di accessori colorati, che nel tempo aveva comprato per dare colore ad una carta da parati stinta e onnipresente, tutta segnata da vite di altri passati in quella casa prima di lei. Ma Giorgia aveva deciso che quei segni di altre storie e mani precedenti non erano da cancellare, ma anzi da salutare ogni mattina come presenze di una comunità costante che ormai faceva parte della sua stessa vita. A lei infatti non dispiaceva mai la compagnia degli altri e la sua casa, pur tanto piccola, era sempre aperta a tutti: i suoi vicini di casa, alcuni appartenenti alla comunità algerina del quartiere, e tanti amici suoi e di sua figlia.

Però, alla sera, quando rientrava sola carica di borse per la spesa, col suo bimbo in braccio e il fiato corto, la luce un po’ debole del suo lampadario disegnava un cerchio di luce non sufficiente a farle allegria, e così la prendeva uno sconforto tremendo ed una morsa sottile le stringeva lo stomaco. Guardava Ahmed, il suo piccolo che le sorrideva dal seggiolone dove lo aveva catapultato stremata, e si chiedeva con una fitta dove fosse il padre di quel bambino che la guardava.

Quel padre più giovane di lei di ben tredici anni, dalla pelle olivastra e dagli occhi incredibili, che aveva incontrato ad una festa quattro anni prima ed era stato amore a prima vista. Lo aveva sposato dopo poco, ovviamente solo in comune, lei separata dal primo marito e lui… musulmano!

Erano stati anni belli e difficili quelli trascorsi insieme: il lavoro precario di lui, le mille pastoie burocratiche per toglierlo dal suo stato di clandestino, la fatica di integrarlo nel nuovo mondo in cui si trovava, di insegnargli una lingua difficile come l’italiano che lui continuava a storpiare facendola ridere come le sembrava di non aver mai riso prima. Fino al giorno in cui, nonostante lei avesse già quarantaquattro anni, lui le aveva chiesto un figlio: voleva un figlio da lei…. Così, nonostante tante difficoltà, era stato concepito ed era nato Ahmed, e mentre lui cresceva dentro di lei e, dopo, viveva i suoi primi giorni di lattante la loro storia d’amore diventava sempre più grigia: i soldi mancavano ogni giorno di più, e assieme a quei soldi, mancava in lui la spinta a darsi da fare e a cercarsi un lavoro.

Giorgia tremava, ripensandoci: era tornata a casa una sera e non lo aveva trovato più… Se ne era andato, aveva portato via in fretta le sue cose “arabe”, compresa la macchinetta per fare il caffè turco che lei adorava. Gli amici della comunità algerina, alle sue domande insistenti e angosciate su dove fosse finito, avevano risposto evasivamente, qualcuno in arabo aveva sbiascicato il termine “nuova compagna”… Ma lei purtroppo l’arabo lo aveva imparato di notte su internet più di quanto loro immaginassero e così lei aveva capito: si era già rifatto una vita, più facile, più leggera, più stimolante.

Non sapeva darsi risposte, si macerava nelle domande, mangiava male e dormiva peggio, a tratti pregava, sì perché nonostante da molto non entrasse in una chiesa, lei era cristiana. Ma ora Giorgia quel Dio conosciuto da bambina lo chiamava di notte, gli chiedeva il perché di quel che le stava accadendo, mentre ripeteva avemarie accorate sgranando un vecchio rosario che aveva ritrovato in casa… E pensava tanto a Maria, quella mamma di tutti, anche dei più lontani, come alla sola donna che potesse realmente capirla in quel momento.

Fu così che le balenò un’idea, prima nel cuore che nella testa: se quel bambino doveva crescerlo lei sola qui in Italia, perché non avrebbe potuto anche fargli il dono meraviglioso del battesimo? Suo padre avrebbe voluto diventasse musulmano come lui, ma dov’era suo padre ora? Allora d’accordo, aveva deciso: appena dopo la messa del mattino, sarebbe andata a cercare il sacerdote della sua nuova parrocchia. Trovò Don Franco, davvero giovane e perso in un maglione blu troppo largo, intento a spegnere tutte le candele dopo la messa: gli chiese con imbarazzo di parlare un attimo, gli raccontò a sommi capi tutta la sua storia, gli disse che ricordava quanto Dio l’avesse sempre aiutata nella sua vita… Poi, quasi balbettando, accennò all’idea di dare il battesimo al suo piccolo Ahmed, ovviamente facendo tutti i passi precedenti che lui le avesse indicato.

Don Franco smise di sorriderle dopo le prime battute, e cominciò a stuzzicare la sua barba rada che cercava di aggiungergli qualche anno sul viso: le parlò evasivamente, le disse che la cosa era un po’ più complicata di come la vedeva lei, che in fondo il battesimo era un sacramento che anche i laici potevano amministrare in qualche caso estremo. Concluse, sfumando la frase, proponendole di battezzarlo lei stessa a casa sua, raccomandandosi però che l’acqua fosse corrente per la validità stessa del sacramento.

Giorgia lo salutò velocemente, stava troppo male per nasconderlo ancora: rientrò in fretta a casa, si stese sul suo divano troppo stretto, chiuse gli occhi, iniziando a ripetere meccanicamente il suo rosario … “e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male, liberaci dal male…” Dal male di essere abbandonati? Abbandonati da Dio? No, non era così, di nuovo la sua costante tenerezza la invase, con la dolcezza delle carezze buone che le faceva il suo vecchio prete del catechismo quand’era bambina…. Carezze che distribuiva sulle loro teste di bambini come una pioggia di caramelle! E la tenerezza si estese a coprire il buco nel cuore che le aveva fatto don Franco, con la sua barba rada e un maglione ereditato da altri, forse una parrocchia difficile e troppa inesperienza.

Il campanello squillò: la sua amica algerina le era andata a prendere Ahmed da scuola e ora glielo riportava, ormai era pomeriggio inoltrato. Najet entrò raccontando nel suo italiano stentato delle prodezze fatte da Ahmed a scuola, gli tolse la giacca e lo passò nelle braccia aperte di Giorgia che la guardava come in trance. Dopo pochi minuti li raggiunse un’altra vicina di casa Maria, nota come la “badante ucraina”: doveva fare assaggiare un dolce tipico del suo paese che aveva appena fatto e raccontare che il suo nipotino in Ucraina aveva perso il primo dente… Accesero la luce: a Giorgia non parve più tanto fioca, mentre si metteva a preparare la pappa ad Ahmed che giocava sul pavimento, mentre le due donne chiacchieravano tra loro.

Si girò verso i fornelli, si asciugò l’ennesima lacrima mentre la pappa stava tracimando in un tegamino troppo piccolo… Esisteva allora anche un sacramento dell’amore, si chiese, quello che si celebrava ogni volta che le persone si aiutavano a sopravvivere e quello che lei scopriva quotidianamente in quella solidarietà tra donne affaticate o semplicemente tra persone povere? Lei lo conosceva quel sacramento, e il suo Ahmmed intanto lo riceveva già naturalmente ogni giorno.

Mentre rigirava il cucchiaio nella pappa pensò a Don Franco, ma senza rabbia, anzi con la sua famosa tenerezza: chissà se anche lui stava infilando il cucchiaio dentro una cena che si era preparato da solo?

 

(questo racconto è tratto da una storia vera, sono stati cambiati solo riferimenti a nomi e luoghi per motivi di dovuto rispetto)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

I commenti devono essere compresi tra i 60 e i 1000 caratteri. I commenti sono sottoposti a moderazione da parte della redazione che si riserva la facoltà di non pubblicare o rimuovere commenti che utilizzano un linguaggio offensivo, denigratorio o che sono assimilabili a SPAM.

Ho letto la privacy policy e accetto il trattamento dei miei dati personali (GDPR n. 679/2016)