Il carcere e le nostre radici cristiane

Possiamo accettare una «giustizia» che lede la dignità della persona? Chiuderli forse non è possibile, ma ripensarli radicalmente sì
1 Aprile 2012

È cristiano chiudere le carceri?

A volte fa bene porsi le domande in maniera un po’ provocatoria. Serve a ricordarci che la fede, nel mondo, dovrebbe essere questo: provocazione, segno di contraddizione, per farsi poi proposta, anche culturale.

Gherardo Colombo ha recentemente pubblicato un libro: “Il perdono responsabile” (Ponte alle Grazie 2011) e mi è capitato di leggerlo a pochi giorni di distanza dalla visita del Papa nel carcere di Rebibbia, a Roma, poco prima di Natale.

In quell’occasione Benedetto XVI ha usato parole chiare, ma anche controcorrente rispetto all’opinione pubblica, a proposito del carcere e della pena. Ha infatti denunciato il fatto che i detenuti oggi, in Italia, si trovano a scontare una “doppia pena”, a causa del degrado e dell’isolamento cui sono costretti. Ha ricordato che non si può prescindere dalle “esigenze della persona umana”, e che le istituzioni devono tenerne conto. Ha quindi indicato il ricorso alle «pene non detentive o a diverse modalità di detenzione» come strumento utile per «non creare quell’abisso tra la realtà carceraria reale e quella pensata dalla legge, che prevede come elemento fondamentale la funzione rieducatrice della pena e il rispetto dei diritti e della dignità delle persone».

Questi sono anni, in cui il bisogno di sicurezza e l’egoismo spingono, di fronte a temi sensibili come quello del carcere (ma anche della povertà, degli immigrati, della salute mentale…), a reazioni viscerali del tipo “aumentiamo le pene”, “tolleranza zero”, “buttiamoli fuori”, eccetera. Lo scopo è togliere di mezzo le persone che fanno paura o che possono creare problema, come per non lasciarsi contaminare. Poco importa se le carceri sono piene di persone in attesa di giudizio (circa un terzo) e quindi forse innocenti, di tossici che avrebbero piuttosto bisogno di percorsi di disintossicazione, di ladri di polli che avrebbero piuttosto bisogno di imparare a lavorare. Negli ultimi due decenni del ‘900 la percentuale delle persone in carcere, rispetto alla popolazione del Paese, è cresciuto del 400% (non solo in Italia, a dire il vero, anche in altri Paesi, come gli Stati Uniti o l’Inghilterra), anche se il numero dei reati non è calato proporzionalmente.

A che serve, dunque, il carcere, così come oggi è concepito? Nei suoi anni di lavoro nel sistema giudiziario italiano, Gherardo Colombo si è convinto che non solo non serve, ma è controproducente. Tra coloro, che hanno scontato la pena in carcere, il tasso di recidiva è del 68%; tra quelli che hanno ottenuto l’affidamento in prova ai servizi sociale è del 20%. Dunque, se il problema è la sicurezza dei cittadini, la pena scontata fuori dal carcere funziona di più.

Ma il problema non è solo funzionale: è culturale. Il carcere, infatti, risponde ad un concetto riparatorio di giustizia: mi hai fatto male, quindi io faccio male a te. Ma in realtà la pena detentiva non ripara proprio a niente: per le vittime e per la comunità la pena detentiva del reo non è un risarcimento, lo sono di più i lavori socialmente utili o altre forme di pena. A prescindere da questo, la domanda che Colombo pone è: si può educare al bene attraverso il male? E la risposta è, che infliggere sofferenza non può che portare ad altra sofferenza.

Inoltre il carcere, così come oggi è concepito, impone isolamento, esclude dai rapporti con gli altri, e quindi lede la dignità della persona, come ha fatto notare anche Benedetto XVI. Ma per una civiltà come la nostra, che si vanta di avere radici cristiane, è ammissibile accettare una “giustizia” che lede la dignità della persona?

Il libro di Colombo è laico, ma per proporre un concetto diverso di pena e di giustizia, attinge molte motivazioni dalla Sacra Scrittura e dalla concezione cristiana dell’uomo. In realtà, visione cristiana e visione laica si incontrano, ad esempio, in alcuni momenti alti del faticoso percorso che l’umanità ha fatto per darsi regole civili condivise. Nella Dichiarazione universale dei diritti umani, o nella nostra Costituzione, per esempio, che riconoscono i diritti umani senza contropartita: neanche quella di osservare le regole, men meno quella di essere “buoni”. Come dice Colombo, «è il riconoscimento della dignità in quanto tale, e quindi della persona in quanto tale, a far sì che nell’ordinamento, nel complesso delle regole dello stare insieme, possa trovare uno spazio il senso della gratuità e, in conseguenza, il riferimento al perdono nel sistema organizzativo della società».

L’alternativa culturale ed educativa che Colombo propone è quella che si coagula nel perdono responsabile. Un perdono che non è un atto occasionale, meccanico o retorico, ma è un processo, anche faticoso, attraverso il quale si ristabilisce un rapporto tra le vittime e i delinquenti, tra la comunità e chi ha trasgredito le regole. Grazie a questo rapporto, il reo non viene espulso e condannato a restare per sempre tale, ma può svolgere un cammino che è si, di espiazione, ma anche di riabilitazione, integrazione e soprattutto di assunzione di responsabilità. «Dio sollecita Adamo e Caino a riprendere il contatto», annota Colombo, «dando loro preventivamente la sua disponibilità perché lo possano fare. Richiama la loro responsabilità verso la relazione. Si scopre così che il perdono ha un contenuto inverso rispetto a quel che comunemente si crede: non è sgravio dalla responsabilità, ma è, al contrario, richiesta di assunzione di responsabilità (di risposta) nei confronti dell’altro».

Ecco quindi che una riflessione sul carcere porta a rimettere in discussione un’intera cultura e un’organizzazione sociale. Come dice Colombo, «si considerino quanto diversi risultano i modelli organizzativi di una società che ha come riferimenti costitutivi la supremazia, lo scambio oneroso, l’obbedienza, il conflitto, la separazione, l’esclusione, l’ordine fine a se stesso, e di una società che si rifà invece al riconoscimento, alla dignità, alla gratuità, alla libertà uguale, all’armonia, all’inclusione, all’ordine finalizzato alla realizzazione della persona (piuttosto che alla persona finalizzata alla realizzazione dell’ordine)».

Chiudere le carceri forse non è possibile, ma ripensarle radicalmente sì. Ed è molto cristiano.

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