Esiste un dovere di contribuire alla vita di una democrazia?

Intervista al filosofo Giovanni Grandi, membro del Comitato scientifico delle Settimane sociali dei cattolici in Italia.
7 Agosto 2024

In Italia, alle recenti elezioni europei dello scorso giugno, ha partecipato il 49,7 per cento degli aventi diritto. È la prima volta che nella storia repubblicana si registra una simile affluenza in elezioni di questo genere. La crisi di partecipazione alla vita democratica del Paese non pare conoscere rallentamenti. In un bel volume intitolato Democrazia e amicizia sociale. Superare la crisi della partecipazione (Ave, 2024), il filosofo morale Giovanni Grandi cerca di declinare un nuovo paradigma di partecipazione attraverso la relazione fra democrazia e amicizia sociale. Professore ordinario presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Trieste, Grandi fa parte del Comitato scientifico delle Settimana sociali dei cattolici in Italia. Lo intervistiamo a partire dai contenuti del suo ultimo libro.

 

– In Italia, alle recenti elezioni europei dello scorso giugno, ha partecipato il 49,7 per cento degli aventi diritto. È la prima volta che nella storia repubblicana si registra una simile affluenza in elezioni di questo genere. Dato per certo che la nostra democrazia non può ridursi all’adesione ad una sorta di “click day” sganciato dal continuo interesse per la cosa pubblica, cosa sta accadendo al nostro Paese?

Più di qualcuno all’indomani delle elezioni europee ha richiamato il successo del film di Paola Cortellesi – “C’è ancora domani” – accostandolo con amarezza all’ennesima contrazione della partecipazione al voto: che fine ha fatto la celebrazione unanime e diffusa del messaggio che portava? La pellicola, alla fine del 2023, era stata vista da circa 4 milioni e mezzo di Italiani, un successo davvero significativo, da cui tuttavia si è fatto sollecitare pur sempre poco più del 10% della popolazione. Una percentuale – sempre arrotondata – che si rispecchia anche nei dati ISTAT sulla popolazione attiva nel volontariato organizzato, che tra il 2015 e il 2021 ha subìto un calo del 15,7%, coinvolgendo a sua volta poco più del 10% degli Italiani. Tra i due dati, naturalmente, non c’è correlazione, ma in modo diverso raccontano di un Paese in larga misura estraneo all’idea che esista un “dovere” di concorrere attivamente al bene comune della società, secondo le previsioni dell’art. 4 della Costituzione: molte persone oggi semplicemente assistono allo svolgersi della vita civile, cercando la propria strada individuale (o di piccolo gruppo) per vivere al meglio, ma senza prendere in considerazione l’idea di contribuire al bene comune mettendo a disposizione di tutti le proprie competenze o risorse. La disponibilità “per altri” è difficile, specie se si tratta di estranei, come non possono che esserlo la maggior parte dei concittadini. Questo, attenzione, non significa che sia in crisi tout-court il senso di solidarietà: sappiamo che nei frangenti eccezionali questo si riattiva, ma è diventato qualcosa che si accende sulla spinta dell’emozione, non tanto di una convinzione meditata su ciò che costituisce una comunità civile. Sono gli effetti di lungo corso di una cultura del consumo individualista, che ha corroso lentamente la coesione sociale e la percezione dei buoni vincoli di concittadinanza da coltivare e rinnovare mettendosi a disposizione. La domanda allora, al di là della diagnosi, riguarda la terapia: come uscire da questo “sonno”, che è anche un sonno della democrazia?

 

– Nel suo ultimo volume ha cercato di declinare la relazione fra democrazia e amicizia sociale come strumento per favorire la partecipazione. In questa visione, cosa significa prendere parte alla vita politica della propria comunità?

Partecipare alla vita democratica non significa esclusivamente esserci al momento del voto, non è una questione di “click-day” si diceva giustamente. La democrazia è una questione di potere, e di modi attraverso cui questo è assunto e impiegato dal popolo, dalle persone, per trasformare – in meglio, auspicabilmente – la vita di tutti, non solo la propria o quella della propria parte. In questo senso, alla Settimana Sociale di Trieste, il Presidente Mattarella ha messo in guardia dal confondere il “partecipare” con il “parteggiare”. Il potere politico rappresenta la possibilità di organizzare la circolazione delle risorse, secondo quel movimento che è ben disegnato dalla giustizia contributiva (il dare, che parte da ciascuno, secondo capienza) e dalla giustizia distributiva (il restituire, disegnato nei modi e nelle proporzioni dalle istituzioni); prendere parte alla vita della propria comunità significa allora cose diverse, tutte necessarie: significa mettere a disposizione qualcosa delle proprie competenze, del proprio tempo, delle proprie risorse economiche; significa portare idee nelle istituzioni e prendersene cura, anche impegnandosi personalmente, perché trasformino la realtà secondo giustizia; significa poter incidere sulle decisioni di tipo politico, anche da semplici cittadini. Quando uno o più di questi tratti iniziano a mancare diffusamente, la vita civile ne soffre.

 

– In alcuni passaggi delle encicliche Laudato si’ e Fratelli tutti, papa Francesco ha sottolineato la rilevanza sociale e politica dell’amore. Concretamente, come si genera l’amore sociale e politico?

Si genera e soprattutto si rigenera praticandolo, e in particolare superando la postura del creditore, che un po’ tutti assumiamo quando ci disponiamo in attesa che “altri” facciano, provvedano, ci pensino, si impegnino… Non è una postura in sé ingiustificata: a tutti noi capita di attraversare periodi in cui abbiamo l’impressione che la vita chieda troppo, e talvolta è proprio così e abbiamo bisogno di essere sostenuti, aiutati, soccorsi perfino. Ci sono momenti, in cui davvero “tocca agli altri” e “alla società” fare qualcosa. Ma è viceversa proprio quando le cose rientrano nella loro ordinarietà di alti e bassi che occorre riscoprirsi anche “debitori” verso la comunità civile, individuando quel qualcosa di nostro che possiamo rimettere in circolazione a beneficio di tutti. Ritorno al principio dell’articolo 4 della Costituzione, che richiama ciascuno alla contribuzione “secondo le proprie possibilità e la propria scelta”: possiamo essere creativi nelle forme di restituzione che generano socialità e buoni legami, ma non dimentichiamo che il contribuire, nella nostra democrazia, non è una opzione eventuale ma un dovere.

 

– Alla recente Settimana sociale dei cattolici in Italia svoltasi a Trieste dal 3 al 7 luglio, i cattolici italiani hanno riflettuto sulla crisi delle attuali democrazie proponendo il paradigma della partecipazione. A ciò, a suo parere, non dovremmo aggiungere un pensiero sui sistemi istituzionali, economici e sociali in grado di allargare – per dirla con Aldo Moro – le basi democratiche del Paese? Non sarebbe opportuno un nuovo “Codice d Camaldoli” da aggiungere agli appelli alla partecipazione?

Camaldoli è stata richiamata molte volte, anche a rischio di diventare un riferimento di maniera. All’epoca c’era bisogno tanto di idee ispiratrici forti quanto di impegno nell’immaginare nuove architetture istituzionali per un “dopo” che si intuiva che sarebbe dovuto arrivare, consumata la tragedia della guerra e del fascismo. Quelle idee forti di democrazia, e certo anche quella forma di impegno – non a caso “costituente” – li abbiamo alle spalle come patrimonio da non dilapidare. Per questo credo sia fuorviante pensare che oggi ci sia bisogno di un nuovo Codice nel senso di una nuova visione, di un ridisegno della vita comune, specie se pensati nella forma di un documento di ispirazione elaborato da un gruppo di intellettuali autoconvocato. Non a caso la stessa Settimana Sociale non ha voluto chiudersi con un documento di conclusioni: di scritti con i “compiti per casa” ne abbiamo fin troppi, e di qualità. Il problema piuttosto consiste proprio nel superare l’appello alla partecipazione individuando modi concreti per sostenerla, per sperimentare dinamiche comunitarie di confronto, per sviluppare quella che potremmo chiamare anche una “intelligenza sinodale”. Le persone non chiedono di ricevere nuove idee, ma di poter portare a frutto quelle che loro stesse hanno maturato, a partire dall’esperienza, dalle fatiche, dalle sperimentazioni più fruttuose. Da questi contenuti ideativi diffusi e certo frammentari – che però ci dicono i vuoti del sistema, il non pensato dei servizi, le micro-disponibilità che già sarebbero a disposizione – potrebbero sorgere anche prospettive più sistemiche, di riforma. La vera sfida non è intellettuale, ma operativa, per certi versi – come abbiamo provato a mostrare anche nei laboratori della democrazia di Trieste – schiettamente metodologica. Su questo occorre lavorare.

 

– Sul finire della sua esistenza, un anziano Giorgio La Pira sosteneva ad un gruppo di giovani che per fare il bene occorreva occuparsi di politica. Aveva ragione La Pira, perché?

La Pira, su questo come su molto altro, aveva pienamente ragione, e la sua testimonianza continua a lasciarci ispirazioni feconde. Mi piace qui ricordare il prof. Piero Viotto, quando alla ricerca di un argomento di tesi chiese consiglio al sindaco di Firenze, che lo rinviò a Jacques Maritain con queste parole: “Scava, e troverai dell’oro”. E i lavori di “scavo” di Viotto sono oggi una risorsa preziosa per rileggere le pagine del filosofo francese, che ha dedicato riflessioni notevoli proprio sul rapporto tra cristianesimo e democrazia. In questa tradizione di pensiero che risale a Tommaso d’Aquino, a cui guardava anche La Pira, il bene comune della città è qualcosa per cui impegnarsi risolutamente. A questa tradizione attinge anche Pio XI (prima di Paolo VI), quando richiama alla politica come al “campo della più vasta carità”: nella Settimana Sociale di Trieste abbiamo potuto constatare che molti tra i Delegati e le Delegate più giovani delle Diocesi sono attivi politicamente sui territori, nelle diverse formazioni, spesso in esperienze civiche. È il loro impegno a dar ragione a La Pira. Occorre ora un po’ di creatività per creare più collegamento, per non lasciare le persone isolate (dalle comunità parrocchiali ma anche tra loro): forse passa di qua la via stretta per ricreare nel Paese una partecipazione più larga.

 

[Intervista a cura di Rocco Gumina]

Una risposta a “Esiste un dovere di contribuire alla vita di una democrazia?”

  1. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    Anche quando vengono proposte leggi che non riscuotono approvazione? Quando chi governa e solo a maggioranza di voti e questi magari rispondenti a incerta convinta fiducia? Quando si sente parlare solo di ruoli da assegnare e non sono chiari al cittadino progetti di utile finalità, quando si firmano accordi per consegna di armi, a continuare i conflitti in atto come se alla causa della Pace fosse cosa naturale accettare tanti cimiteri nuovi, in nome di una legittima difesa, o giustizia o libertà dove a un popolo si propone un altro nome come Governante ma poco sollievo a fame e malattie si realizza. Il monito proveniente da una natura che scientificamente viene riconosciuta in cambiamento climatico, le sue manifestazioni generano danni apocalittici. Eppure tutto appare sotto imposto silenzio , innaturale data l’evidenza! Mentre le guerre procedono spedite senza fine. Dove la Democrazia tanto perseguita?

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