Non moltissimo tempo fa – parliamo di un paio di generazioni, forse tre – succedeva che sulle camicie da notte che facevano parte del corredo delle giovani spose, si ricamasse la scritta: “Non lo fo per piacer mio, ma per dare figli a Dio”. Una frase che era una condanna e che ben esprimeva il modo di concepire la sessualità: fondamentalmente un peccato, tollerata nel matrimonio perché inevitabile, ma imprigionandola in regole e limitazioni. E, ovviamente, escludendo il piacere dall’attività sessuale.
In questo relativamente breve arco di tempo molte cose sono cambiate, ma non c’è dubbio che nella Chiesa l’erotismo sia ancora percepito come qualcosa di problematico, che interferisce con la vita di fede, che allontana da Dio.
Contro questo modo di pensare, o meglio di “sentire” e di vivere, Gilberto Borghi ha scritto un libro: “Dio che piacere!” (Ed. San Paolo 2018): titolo provocatorio e variamente interpretabile: Dio è un piacere; nel momento massimo del piacere è inevitabile pensare a Dio; provare piacere come Dio… Perché sì, anche Dio prova piacere, e lo prova proprio nel rapporto con noi, uomini e donne che lo cerchiamo e che attraverso il piacere possiamo avvicinarci a lui.
Oggi l’uso e l’abuso della sessualità ne hanno sminuito il valore, tanto che non riusciamo più a darle un senso. Scrive Borghi: «La sessualità, come la vivono i miei studenti, porta con sé una chiara condizione di “frantumazione” interna. Piacere, sentimenti e procreazione sono realtà che vanno ognuna per conto proprio, traccia sessuale di un dato antropologico ancora più generale: cuore, mente e corpo vivono da “separati in casa” e sempre più spesso, per il singolo, non è possibile accedere a una ricomposizione interna, molto desiderata, ma altrettanto miracolosa».
Partendo da questa diagnosi, Borghi inizia un percorso che lo porta a proporre l’erotismo come luogo di pienezza della vita e dell’amore, di crescita spirituale e umana, di santità.
Già nell’Antico Testamento, infatti, l’erotismo è sempre collocato dentro una relazione umana, che possono essere quella di coppia; quelle sociali, che coinvolgono la comunità cui la coppia appartiene; quella spirituale, attraverso cui la coppia entra in rapporto con Dio. E non lo fa “nonostante” il suo gesto erotico, ma proprio grazie ad esso. La pulsione erotica è infatti un’energia naturale, che può produrre unità e costruire vita, come può al contrario produrre frammentazione e morte. Può produrre frammentazione sociale, quando rompe le regole condivise (come l’adulterio), o frammentazione personale, quando si concentra il “possedere” o il “consumare” l’altro, invece di prendersene cura.
E se nella storia della Chiesa è prevalsa l’impostazione “repressiva” – da Agostino in poi – ci sono stati però diversi modi di affrontare il tema, compreso quello che concepisce appunto il piacere erotico come un piacere carnale grazie al quale ci si prende cura dell’altro, aiutandolo e aiutandosi a crescere.
Borghi ne ripercorre le tracce, dai Padri della Chiesa fino al Concilio Vaticano II, dove si delinea la svolta, grazie al riconoscimento che il sesso non solo esprime il dono di sé che gli sposi reciprocamente si fanno, ma ne favorisce anche la crescita e la stabilità, e perciò si auspica «un generoso esercizio della sessualità» attraverso le sue «giuste manifestazioni» tipiche degli sposi. (Gaudium et Spese 49 e 50)
E poi prosegue attraverso il pensiero degli ultimi papi: Giovanni Paolo II, secondo il quale la sessualità è la liturgia della coppia, e allo stesso modo in cui la liturgia della Chiesa ci anticipa la vita di beatitudine del Regno, così fa il sesso nella coppia; Benedetto XVI, secondo il quale «Eros e Agape non si lasciano mai separare completamente l’uno dall’altro» e vanno vissuti unitariamente; Francesco, che ricuce la frattura tra l’esperienza della gioia e quella del piacere, perché «la gioia allarga la capacità di godere e permette di trovare gusto in realtà varie» e un «vero amore non rinuncia ad accogliere con sincera e felice gratitudine le espressioni corporali dell’amore nella carezza, nell’abbraccio, nel bacio e nell’unione sessuale».
Se questa è la prospettiva, è evidente che anche il concetto di castità va rivisto: usato di solito per indicare astensione dai rapporti sessuali, indica piuttosto una vita “indivisa”, in cui testa, cuore e corpo si riunificano e si indirizzano verso l’amore, seguendola forza attrattiva di Dio.
Vale per tutti, per chi ha scelto vocazioni religiose come per i coniugi, che attraverso il rapporto erotico tra loro “rendono carne” quello tra Cristo e Chiesa, che si appartengono reciprocamente. L’esercizio della sessualità è indispensabile non solo per procreare, ma per fare del matrimonio una via di santità. Con buona pace delle nostre nonne e bisnonne.
Come è nel suo stile, Borghi scrive partendo dalle domande che i ragazzi gli pongono a scuola, per rispondere alle quali attinge ai testi sacri, ai padri della Chiesa, ai teologi, al Magistero della Chiesa. Questo dà al libro uno stile veritiero, quello di chi sa che non bisogna eludere le domande dei giovani, perché sono in realtà le domande che tutti gli uomini e tutte le donne si pongono. E cercando risposte, lascia al lettore alcune domande: quale etica può scaturire dal riconoscimento del piacere come via per avvicinarsi a Dio? E quale pedagogia si può mettere a punto per far crescere – nelle diverse vocazioni – cristiani capaci di gioire dicendo: «Il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente».