La rotonda dell’incrocio, scendendo dal Ponte Rosso, è la porta dell’inferno. Da lì, imboccando via Mezzarisa si scende verso il fiume, nel cuore dell’apocalisse, il quartiere chiamato “la bassa Italia”, perché quando lo si è costruito (fine anni ’60) veniva abitato soprattutto da emigrati del sud che arrivavano per trovare lavoro al nord. Ma forse anche perché, incastonato tra le mura e il fiume ha una quota media delle strade pari al livello normale del Lamone. Solo qui, circa 350 case sono state sepolte da sei metri di acqua. Questo è solo uno dei tre quartieri devastati il 16 maggio scorso.
Dopo un mese cominciamo a vedere cosa è davvero successo a Faenza. Per una lunghezza di circa 4 chilometri, il fiume ha esondato, proprio nell’attraversamento della città. Un area di 600 campi da calcio (600!) si è riempita di acqua per una altezza media di 3,5 mt. Circa mille abitazioni sono state fortemente colpite (cioè non solo cantine e garage, ma uno o due piani abitativi). Per cui poco meno di 4000 persone non potranno rientrare nelle loro case prima di dieci mesi, un anno. Per ogni abitazione fortemente colpita si è stimato un costo di 50-70 mila euro, per il ripristino totale. Le macerie stimate riempiranno quattro campi da calcio per una altezza di 25 metri. Tutta la metà della città che sta a est della ex statale 302 è stata colpita dall’alluvione, complessivamente circa 18 mila persone (su un totale di 57 mila), andando da chi ha avuto solo pochi centimetri in garage a chi è stato sommerso da 8 metri di acqua dal livello stradale.
Eppure sabato scorso è ripreso il mercato nelle due piazze centrali. Il solito festoso brusio della vita. Tra le bancarelle capto mezze frasi e parole: … per fortuna solo il garage; … ma duro come un sasso, quasi cementato; … no, perché fa l’effetto ventosa; … ah, li ho chiamati due volte, poi abbiamo usati i secchi per svuotare; … non lo so, adesso ci andiamo su dietro e vediamo. Nessuno sfugge al dramma. Ma i due bar sotto la torre, proprio nell’incrocio di “cardo e “decumano”, sono pieni. Qualcuno ancora vestito di fango, ma non per questo meno vivo di altri.
Il comune sta seriamente pensando di celebrare in luglio il Palio del Niballo, tradizionale evento identitario che ogni giugno ci ricorda i legami ancora saldi con la nostra storia. In uno dei corsi principali, alluvionato con un metro circa di acqua, sulla vetrina di un negozio, succursale del principale, aperto appena a fine aprile leggo: “Siamo romagnoli, non ci fermiamo, in attesa di rivedervi qui, ci trovate operativi nella nostra sede, 50 mt verso la piazza”. E nell’altro corso martoriato un negoziante ha scritto in grande col fango, sulla vetrina: “Grazie a tutti”.
Cosa ci tiene in piedi? Cosa ci fa alzare la mattina e pensare che vale la pena, quando hai perso auto, casa, e lavoro in meno di un’ora? Quando i ricordi di una vita intera sono appallati e irriconoscibili in 30 cm di fango; non hai più foto dei tuoi che già non c’erano più, non hai più le password per i tuoi 80 siti in cui eri iscritto e i documenti stessi della casa che hai dovuto lasciare si sono sciolti in tre giorni di acqua; per un anno almeno sarai profugo presso qualcuno che non hai scelto e con cui è difficile convivere; e per arrivare lì hai visto la morte in faccia e sei stato preso per i capelli da uno sconosciuto su un gommone, che resterà tale e nemmeno potrai ringraziare.
Cosa ci tiene in piedi? La fede? Mah… Siamo stati per quasi quattro secoli la zona di confino in cui lo stato della Chiesa mandava eretici, ladri, assassini, pervertiti, prostitute. Forse è per questo che poi ancora negli anni ’60 a Taglio Corelli, quattro case in croce, circa a 30 km da Faenza, nel mezzo della “bassa” il PC faceva l’80% alle elezioni e il prete, durante la settimana rossa, veniva spogliato, messo su un asino e condotto per i 500 mt del paese. No, forse non è la fede a tenerci in piedi, o almeno non quella istituzionale religiosa.
Forse è più facile che ci tenga in piedi lo spirito con cui un nostro grande poeta, Aldo Spallicci, ci racconta: “A vag par la mi strè (vado per la mia strada), incotra a la mi guera (incontro alla mia guerra); sa chesc a chesc par tera (se cado cado per terra), azindenti a chi’m to so! (un accidente a chi mi solleva!). Che dice tutta la nostra energia autarchica, nata per opposizione, che mal sopporta pietismi e carità formale, ma che si sa accendere di grande condivisione e solidarietà quando trova sincerità autentica. Quella rude solidarietà che ci fa salutare quando ci incontriamo con un: “Cut vegna un azindent, ci incora viv! (Che ti venga un accidente, sei ancora vivo!). Si chiama Vitalità? Resilienza? Adattamento creativo?
Non lo so, ma di sicuro è una cosa difficile da smontare, ce l’abbiamo nel sangue. Ha a che fare con l’energia vitale, con la voglia di far vivere la vita, che, tradotto, è il nostro nome che diamo all’amore. Certo, a volte può anche diventare un’energia prepotente e presuntuosa, dando origine al classico “pataca” romagnolo, ricordandoci che un nostro famoso figlio nacque a Predappio.
Ma più spesso diventa quell’enorme senso della giustizia sociale, che non ci farà smettere di chiedere allo stato di coprire le spese della ricostruzione. Diventa la saggezza di chi ha capito che godersi la vita fa rima con condivisione, perciò fino a che potremo non lasceremo indietro nessuno. Diventa la gioia di lavorare duro per rifare questa città ancora migliore di come era prima, perciò useremo la fantasia, copiando dai giapponesi (sì, stavolta copieremo noi!) l’arte del Kintsugi, per rendere ammirevoli le nostre ferite. Perciò non sono così sicuro che questa roba sia così lontano dal vangelo.
Ora il nostro Papa parole chiare e nette contro i parolai..
Chiede FATTI e opere di bene.
Mi sono fischiate ke orecchie..❤️🌺
Leggendoti mi sono venute in mente la parole di Delpini.
E mi/ti/vi chiedo:
Tra l’attaccamento alla VITA e l’egolatria, EGO first c’é tanta differenza? Quell’elan vitale che fa guizzare una anguilla anche dopo la testa mozzata, il canto del cigno, l’albero che caccia fuori tutto il suo vitale prima di morire?
E in qs spinta/prospettiva appoggiarsi agli altri, usarli è approfittarne o socialitá? A scuola si studiava quel periodo post-fioritura greca in cui si scriveva tanto su nominalismi…
Se vogliamo uscirne dobbiamo passare dalle parole ai. FATTI, come state facendo voi.
Ammirevoli, anche culturalmente.