Cattolici,conflitti e gerarchie

Cattolici,conflitti e gerarchie
28 Gennaio 2019

Roberto Beretta ha ragione nel dire che l’unità dei cattolici si deve inevitabilmente fare (se si fa) «a progetto». Faccio alcune riflessioni a margine.

  1. Il conflitto tra cattolici fa parte integrante della via della santità. E non perché siamo peccatori, ma perché ognuno ha la sua particolare e personale vocazione specifica, che gli chiede di “gerarchizzare” l’amore, perché nessuno di noi è onnipotente e può occuparsi di tutto. Salvaguardare il proprio “specifico” fa parte del compito che Dio ha dato a ciascuno, nella propria vocazione. Perciò c’è sempre un “prima qualcuno”, perché il nostro amore è sempre individuale. E non è vero che Cristo ha definito una volta per tutte e per tutti quale sia il suo “prima qualcuno”. Mt, Mc, Lc e Gv mostrano come esistano almeno 4 diversi “prima qualcuno”. Paolo pure, ha il suo; Pietro e Giacomo idem. Perciò il conflitto è alle porte. At 15 lo dimostra senza dubbio. La questione non è che esista il conflitto, ma come lo si vive. Se si vuole solo vincere sull’altro, perderemo tutti. Paolo e Pietro si sintonizzano solo su nuclei concreti di problemi e sulle loro soluzioni possibili, per dare corpo alle loro reciproche gerarchie di amore, che comunque, tra loro, restano.
  2. Oggi non c’è e non ci può essere una “vision” unitaria politica per il semplice fatto che la società ha cambiato pelle e modo con cui legge sé stessa. Le ideologie sono finite. Al loro posto prevalgono le logiche delle lobbies, del mercato globale, che tendono ad imporre una globalizzazione culturale, con una unica “vision” ammessa. A fronte di questo chi vuole una fede con un’unica “vision”, rischia davvero di fare il gioco delle lobbies e del mercato globale. Perché la fede non deriva culturalmente da una filosofia che la giustifica e da una teologia che la struttura, ma essenzialmente da un rapporto personale con Cristo. Ognuno produce perciò una “vision” che è traduzione del suo proprio stile di relazione con Cristo. E, queste traduzioni sono tante quante sono le persone.
  3. In questo stato di cose il ruolo del magistero non è più quello di “indicare” la direzione di marcia che tutti devono seguire. E’ quello di indicare quel “minimo comune”, quell’essenziale della fede, che rende possibile riconoscersi cattolici, pur se su sponde opposte. Epi-scopè in origine significava questo: colui che super-vede la fede per delinearne i confini, non per definirne le forme. Il clericalismo forse è anche questo.
  4. Ma questa operazione della gerarchia non ha validità una volta per tutte e per tutti, perché anche essa, è frutto della relazione con Cristo. Ad ogni epoca, ad ogni generazione che si presenta sulla scena del mondo la gerarchia è chiamata a ripercorrere questo compito di epi-scopè, perché la fede esiste solo dentro a persone che vivono una relazione con Cristo. E le persone non sono mai disincarnate. Sono sempre figlie della cultura in cui nascono e crescono. Perciò, in ogni epoca, si spostano gli accenti, gli equilibri interni della fede, si ristrutturano le gerarchie dell’amore. Il risultato di questa operazione della gerarchia non può non tenere conto di queste mutazioni, altrimenti è pura teoria. Bella quanto si vuole, ma inservibile nel qui e ora. La domanda seria su cui dovremmo allora chiedere alla gerarchia una dichiarazione è: nella nostra epoca qual è l’accentuazione della fede e dell’amore che più rende possibile riconoscere tra noi l’essenziale del cristianesimo?
  5. Al momento la sensazione è che la gerarchia stessa non abbia una risposta da dare. Per due motivi. Da una parte moltissimi epi-scopè non hanno categorie intellettuali sufficienti per “leggere” la società e suoi cambiamenti. Spaesati, in un mondo che non frequentano quasi mai davvero, resta loro solo la ripetizione di un vangelo teorico e astratto, che rischia davvero di non dire nulla a nessuno. Dall’altra, una frangia rumorosa e potente di epi-scopè giudicano severamente la situazione culturale della società, ma non si rendono conto che per farlo utilizzano categorie figlie della medesima cultura. Perciò, il loro richiamo alla “perenne” tradizione cristiana, finisce per essere vissuto da loro e da chi gli crede, nelle uniche forme possibili di fede, prevista dentro alla cultura dominate del mercato: il formalismo estetico, il miracolismo emozionale, il teologismo computeristico.
  6. In questo stato di cose, forse per la prima volta, tranne il tentativo abortito del partito popolare di Sturzo, i cattolici hanno uno spazio di intervento politico non definito a priori, dall’alto della riflessione teologica – gerarchica, quindi non unidirezionale. E mentre chi era abituato all’uniformità delle direttive avverte questo come una mancanza di chiarezza e di orientamenti, chi mal sopportava l’uniformità brinda alla libertà di traduzione individuale del vangelo sul piano politico. Ovviamente nessuna di queste due reazioni è efficace e quindi l’unica strada percorribile è quella indicata da Roberto.

 

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