Nella Lumen Fidei, enciclica di Papa Francesco ma con noti e ampi contributi di Papa Benedetto, viene fissato al paragrafo 34 uno dei più bei punti, a mio avviso, sulla maternità/paternità della Chiesa e sulla sua possibilità di accoglienza e misericordia oltre ogni limite. In pratica si afferma, senza mezzi termini, che la verità della dottrina non può mai soffocare il rispetto della dignità della persona, in qualunque stato essa si trovi. L’enciclica dunque usa queste parole luminose per dirlo: “Essendo la verità di un amore, (quella oggettiva della Chiesa) non è verità che s’imponga con la violenza, non è verità che schiaccia il singolo. Nascendo dall’amore può arrivare al cuore, al centro personale di ogni uomo. Risulta chiaro così che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l’altro”.
Principio stupendamente e direttamente evangelico, che si potrebbe applicare ad ogni carezza che il cristiano è chiamato a riservare al proprio prossimo, anche quando questo ha il volto del lontano e dell’emarginato. Ma in tempi, come i nostri, di polemica intestina su tante vicende, e leggendo molto sui social a proposito di questo, mi viene immediatamente da applicarlo alla “reazione” da più parti nella chiesa contro le veglie antiomofobia che si sono tenute in diverse diocesi in occasione della appena passata Giornata contro l’Omofobia, celebratasi come ogni anno il 17 maggio.
Tra le diocesi citate a proposito quella di Reggio Emilia, di Bergamo e di Parlermo, dove l’arcivescovo Lorefice ha addirittura composto un’accorata, quanto radicale preghiera, da leggersi in tutte le parrocchie del suo territoio: «Mentre deploriamo con fermezza che le persone omosessuali siano state e siano ancora oggetto di espressioni malevole e di azioni violente, preghiamo perché i cristiani, attingendo alla grazia dell’Evangelo, testimonino e annuncino, con audacia profetica, l’incondizionato rispetto dovuto ad ogni persona e denuncino ogni forma di discriminazione ed emarginazione».
Si parla di profezia nella chiesa, quella appunto che si riaggancia al pensiero iniziale della Lumen Fidei che vuole e chiede la lungimiranza, non solo nel mondo laico, ma anche in quello religioso e dichiaratamente cristiano, di rinunciare a battaglie intransigenti contro la diversità, in questo caso di orientamento sessuale, e deplora ogni forma di violenza, non solo fisica, ma anche verbale e di esclusione più o meno latente, verso persone che vengano considerate “diverse”, e quindi da correggere e riconvertire.
Fanno eco a queste parole dell’arcivescovo di Palermo, quelle altrettanto criticate di Mons. Camisasca, vescovo di Reggio Emilia il quale, il 20 maggio, nella veglia della chiesa di Regina Pacis, ha affermato: «Sono qui per continuare il dialogo in realtà iniziato tanti anni fa, con le persone che provano attrazione per altre persone dello stesso sesso. Non sono qui per una sigla, Lgbt, che non mi appartiene. Neppure per un aggettivo, gay. Sono qui per un sostantivo, persone. Voi siete delle persone!…So che alcuni di voi si sentono oggetto di incomprensione o addirittura di dileggio ed esclusione. Io vi considero tutti figli miei, a tutti gli effetti». Ritorna il termine “persona” che richiama ancora la Lumen Fidei (“al centro personale di ogni uomo”!), per superare sigle e parole che nella diatriba odierna, laica e cattolica, da ogni parte, vengono utilizzate come baluardo da impugnare o abbattere…
Qui i vescovi in questione sono chiari: non si tratta di cambiare il magistero in materia di unioni omosessuali o di morale sessuale in genere, si tratta di ribadire la denuncia di ogni forma di violenza contro ogni escluso che esista ancora nel nostro mondo, e le forme di emarginazione di ogni tipo che ne possano derivare, per riaffermare la profonda volontà evangelica di puntare al dialogo (Camisasca) e accogliere promuovendo il rispetto profondo (Lorefice) anche per queste persone, troppo spesso vittima di esclusione, bullismo e forme di violenza, considerate “diverse”, con una parola che troppo spesso crea forme pericolose di confusione.
Vescovi permissivi dunque? Che iniziano a far vacillare pericolosamente il magistero? Non direi, ma anzi molto in linea con la stessa Amoris Laetitia, che riporta con chiarezza: “Un numero non trascurabile di uomini e di donne presenta tendenze omosessuali profondamente radicate. Questa inclinazione, oggettivamente disordinata, costituisce per la maggior parte di loro una prova. Perciò devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza. A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione. Tali persone sono chiamate a realizzare la volontà di Dio nella loro vita, e, se sono cristiane, a unire al sacrificio della croce del Signore le difficoltà che possono incontrare in conseguenza della loro condizione.”(AL 348).
E, in altro passo, nel catechismo della Chiesa cattolica:” Le persone omosessuali sono chiamate alla castità. Attraverso le virtù della padronanza di sé, educatrici della libertà interiore, mediante il sostegno, talvolta, di un’amicizia disinteressata, con la preghiera e la grazia sacramentale, possono e devono, gradatamente e risolutamente, avvicinarsi alla perfezione cristiana.”(CCC 2359). Ma si badi bene, non chiamate ad una castità superiore a quella di una persona eterosessuale, che viva in uno stato da single o ad un coniugato, chiamato a forme di castità tipiche del suo stato.
Quanta paura, dunque, mi pare emerga nell’essere accoglienti e paterni verso chi sembra far vacillare la verità di una morale se solo lo si fa entrare, se solo si alza quel velo di vergogna perenne in cui sono condannate queste persone, spesso fin dalla loro prima pubertà…
Quanta fatica, anche all’interno della Chiesa, nell’aiutare ad uscire tanti dalla vergogna per approdare ad una forma di consapevolezza di chi si è veramente, diversi e non…
Allora, da semplice francescana e non da teologa, mi si permetta di concludere questa breve riflessione a braccio con due passi tratti dalle Fonti Francescane che mi pare centrino molto con l’idea di soccorrere la vergogna altrui e contribuire al far sentire il fratello benedetto e accolto. Nella Biografia Prima di Giovanni da Celano si racconta che una notte tra i frati riuniti insieme a Francesco, durante il riposo, si levò il grido di uno di loro che soffriva atrocemente per i crampi della fame dovuti a un digiuno che tutti insieme stavano facendo. Francesco allora, per evitare al fratello in pena la vergogna di dover necessariamente mangiare da solo, chiese a tutti e a se stesso di rompere il digiuno per quella notte mangiando insieme del pane, segno che il rispetto del valore immenso del digiuno veniva dopo l’accoglienza della fragilità di un fratello. Nessuna intransigenza dunque per chi in quel momento è diverso e non ce la fa, in questo caso, nessuna violenza o imprecazione per chi è lontano da quello che è pensato come bene assoluto… E qui mi si permetta un accostamento alla delicata preghiera di Mons. Lorefice.
Secondo e ultimo passo è invece tratto dalla Biografia Seconda dello stesso biografo, dove l’ultimo, il diverso, l’emarginato è lo stesso S. Francesco, che appare appesantito dalla persecuzione e dagli improperi paterni che vogliono farlo rinsavire dalla sua decisione di povertà estrema. E allora il santo si rivolge a un umile contadino, implorandolo di benedirlo ogni volta che il padre terreno lo avesse maledetto e quindi sconvolto emotivamente: tenerissima anche qui questa esigenza perfino in lui, uomo di Dio, di sentirsi accolto, benedetto da una figura paterna: e qui mi riaggancio alle parole di Mons. Camisasca che considera tutti suoi figli, anche quelli che si sono sentiti tanto tempo esclusi per comportamenti o tendenze considerate deviate o non ortodosse all’interno della stessa Chiesa.
E non si tratta di annacquare il messaggio, ma solo di aprire le porte delle nostre chiese per poter dialogare e camminare insieme, consci che non ci troviamo in un “mai” di conversione, ma in un “non ancora” di comprensione dell’Amore immenso di Dio.