Sui “dubia” dei quattro cardinali

Sui "dubia" dei quattro cardinali
21 Novembre 2016

Sono molto contento che quattro cardinali abbiano deciso di rendere pubblica la lettera inviata già il 19 settembre al papa, con la richiesta di una interpretazione autorevole di alcuni passi dell’esortazione post-sinodale «Amoris Laetitia» sul matrimonio e la famiglia. In questo modo possiamo tentare di capire quale sia il vero centro della questione e la “ratio” implicita che guida questi cardinali nella loro richiesta.

Dalla formulazione dei dubbi appare chiaro che per i cardinali alcune espressioni di “Amoris Laetitia” entrerebbero in contraddizione con altri passi del magistero recente, creando così “smarrimento e confusione” nei fedeli.

Il vero centro del problema non è, però, la riammissione all’eucarestia dei divorziati risposati, come potrebbe far pensare il primo dei cinque “dubia” (dubbi), di cui la lettera si compone. Questo semmai è la punta dell’”iceberg”. Il suo cuore, invece, sta un po’ più sotto, e si evidenzia nel secondo e nel quinto dei dubbi, che a loro volta si risolvono in due questioni teologiche: esiste una verità etica oggettiva e questa può essere riconosciuta in situazioni reali e concrete? Secondo: la coscienza può legittimare eccezioni alle verità etiche oggettive, basandosi sulle circostanze e i condizionamenti reali? Per i cardinali, il rischio del “no” alla prima e del “sì” alla seconda, creerebbe sconcerto nei fedeli.

Ora, personalmente sono convinto che a sconcertare i fedeli siano cose ben meno teoricamente oggettive, ma molto più praticamente effettive. Ciò non toglie che le domande dei cardinali abbiano un senso. Che però, forse, si restringe più probabilmente, alla paura degli stessi, che un certo modo di leggere il “depositum fidei” sulla morale possa venire messo in discussione. Entriamo nel merito, per capire cosa intendo.

Nel secondo dubbio A. L. 304 è messa in contrapposizione con Veritatis Splendor 79. Quest’ultimo dice: “È da respingere la tesi, secondo cui sarebbe impossibile qualificare come moralmente cattiva secondo la sua specie, il suo oggetto, la scelta deliberata di alcuni comportamenti o atti determinati prescindendo dall’intenzione per cui la scelta viene fatta”.

  1. L. 304 dice: “È vero che le norme generali presentano un bene che non si deve mai disattendere né trascurare, ma nella loro formulazione non possono abbracciare assolutamente tutte le situazioni particolari. Nello stesso tempo occorre dire che, proprio per questa ragione, ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti ad una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma”.

Ora è abbastanza chiaro che A. L. non nega che una determinata azione possa essere definita moralmente cattiva in sé; ma solo che tale definizione possa essere applicata “assolutamente”, cioè in modo diretto e senza mediazione alcuna, a tutte le situazioni realmente esistenti. Non è in questione l’oggettività della norma morale, ma il suo modo di essere applicata alle situazioni reali della vita.

Mi verrebbe da chiedere allora ai cardinali, se dopo la loro richiesta sia ancora valido quanto stabilito da Lumen Fidei 34 (notoriamente di Benedetto XVI, anche se a firma di Francesco): “Essendo la verità di un amore, (quella oggettiva della Chiesa) non è verità che s’imponga con la violenza, non è verità che schiaccia il singolo. Nascendo dall’amore può arrivare al cuore, al centro personale di ogni uomo. Risulta chiaro così che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l’altro”.

Nel quinto dubbio A. L. 303 viene messa in contrapposizione a Veritatis Splendor 56. Essa afferma: “Una certa considerazione esistenziale più concreta, tenendo conto delle circostanze e della situazione, potrebbe legittimamente fondare delle eccezioni alla regola generale e permettere così di compiere praticamente, con buona coscienza, ciò che è qualificato come intrinsecamente cattivo dalla legge morale”.

  1. L. 303 dice: “Questa coscienza può riconoscere non solo che una situazione non risponde obiettivamente alla proposta generale del Vangelo; può anche riconoscere con sincerità e onestà ciò che per il momento è la risposta generosa che si può offrire a Dio, e scoprire con una certa sicurezza morale che quella è la donazione che Dio stesso sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti, benché non sia ancora pienamente l’ideale oggettivo”.

E’ davvero lampante come Francesco dica che la coscienza concreta riconosca che una certa azione non è buona in linea generale. Ma aggiunge che la stessa coscienza, proprio perché è efficace, può riconoscere come il bene possibile in quella situazione sia limitato. Il ché è molto diverso dal dire che la coscienza in questo caso definisce bene qualcosa di male (come V. S. 56 paventa). Riconosce invece, che anche in mezzo al male, una traccia di bene si può ritrovare e perseguire, pur se il comportamento di quella persona non è ancora compiutamente bene.

Mi verrebbe da chiedere ai cardinali allora, se dopo il loro quinto dubbio sia ancora valido quanto afferma Gaudium et spes 16: “Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell’intimità del cuore: fa questo, evita quest’altro. L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato”.

Difficile negare, alla fine, che la “ratio” che guida i cardinali sia quella di andare a cercare ciò che divide il magistero, più che ciò che lo unisce. Di fronte ad apparenti discrepanze magisteriali, prudenza vorrebbe che prima di tutto si cerchi una interpretazione che provi a ricomprendere insieme quelle che sembrano contrapposizioni, non a dividerle. E se i cardinali non hanno scelto questa strada è perché faticano a porsi una domanda, che è invece la “ratio” di Francesco: come offrire al peccatore la via per uscire dal suo peccato? Se il peccatore (pubblico concubino) per uscire dal suo peccato ha bisogno della grazia, come mai gli vietiamo di accedere alla grazia (nella confessione e nell’eucaristia), a meno ché lui non sia già uscito dal suo peccato (abbia cioè già scelto di non essere più concubino)? La posizione dei cardinali non risolve la contraddizione, perché non ammette gradualità nell’uscita dal peccato; quella di Francesco apre una possibilità graduale.

 

 

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