Oltre il dolore

Forse è ora di provare a riflettere sui modi con cui la comunità ecclesiale forma, accompagna e sostiene i nostri preti al celibato, sullo sfondo della maturità umana degli stessi.
21 Luglio 2012

Non so da dove cominciare. I pensieri si aggrovigliano alle emozioni e non è facile trovare un filo chiaro e coerente in quello che vorrei dire. Il fatto è che qualche amico con cui ho discusso e alcune mail ricevute mi hanno indotto a non lasciar cadere l’ennesimo dolore di questi giorni. Dolore per una ragazzina di 13 anni coinvolta con un adulto, don Giangiacomo, un prete, in una relazione, a qualche livello “sessuale”. Il dolore per due genitori assolutamente increduli, sconcertati e colpiti in faccia, improvvisamente, da una realtà impensabile. Il dolore di un’intera comunità cristiana e di una città che, attonite, si chiedono se davvero la realtà possa mascherarsi fino a questo punto. 

E quello che più mi inquieta la mente e mi chiede riflessione è che fra pochi giorni o settimane le luci si saranno già spente su questo dramma. E allora, almeno per un lato, quello su cui sento di avere più parole da spendere, credo sia giusto osare una riflessione che ci apra oltre l’orizzonte del dolore e del male. Forse è ora di provare a riflettere sui modi con cui la comunità ecclesiale forma, accompagna e sostiene i nostri preti al celibato, sullo sfondo della maturità umana degli stessi.

Oltre il dolore, sento davvero stanchezza e urgenza. Stanchezza perché troppe, troppe, assolutamente troppe sono già state le volte in cui ci siamo dovuti imbattere in questo tema, ma davvero poco, troppo poco avverto che abbiamo provato a fermarci e pensare come vivono la loro dimensione affettiva i nostri preti, e soprattutto a provare ad articolare proposte concrete per farci carico, come comunità, delle fatiche, degli errori e delle possibilità di aiuto. Ma non solo per chi finisce nel baratro, ma davvero per tutti i nostri preti. E l’urgenza. Se c’è una cosa di cui sono certo è che abbiamo già perso troppo tempo, nel tentativo di non vedere la realtà.

Troppo pochi sono i preti che riescono ad avere una maturità umana e affettiva degna del compito a cui sono chiamati. La stragrande maggioranza trova “strategie” di sopravvivenza che non riescono a nascondere il disagio e la mancanza di equilibrio. Dal cibo al potere, dallo studio al denaro, dall’immagine alla ricerca spasmodica della santità, dall’uso della tecnologia al riempimento di ogni spazio possibile dell’agenda, queste strategie si diffondono a macchia d’olio. Certo, anche molti laici soffrono della stessa problematica, e in generale oggi è davvero dura trovare persone “adulte” ed “equilibrate”. Ma non può valere il “mal comune mezzo gaudio”, perché tutti siamo chiamati ad essere interamente umani, per essere almeno abbastanza cristiani.

E soprattutto perché il prete, che lo si voglia o no, ha ancora una “esposizione” pastorale molto maggiore dei laici. E, a differenza loro, è chiamato al celibato. E questo lo obbliga ad una maturazione umana forse maggiore, soprattutto oggi, per restare fedele al suo mandato. E allora è possibile che tra tutte le professioni di “aiuto” alla persona che io conosco, il prete sia l’unica che può essere esercitata senza l’obbligo, non giuridico, ma concreto, di una “guida” che verifichi effettivamente il suo stato di “salute” umana e spirituale? Possibile che in diocesi ci siano uffici e dipartimenti per tutto o quasi e invece nessuno abbia il compito di occuparsi dei nostri preti? 

E soprattutto che il suo ruolo di aiuto alla persona sia vissuto senza aver affrontato un percorso (non un corso teorico!!) di conoscenza psicologica di sé stesso, per essere in grado di conosce i propri meccanismi di difesa e le strategie di aggiustamento alla realtà, i propri punti critici e le proprie risorse per farvi fronte. E non mi si venga a dire che così la psicologia ruba spazio alla spiritualità, perché davvero vuol dire che non abbiamo capito la differenza essenziale tra le due cose. Se uno corre in bici, vi pare che siano la stessa cosa il meccanico che aggiusta la bici e la guida-allenatore che vi accompagna a vi fa vedere dal vivo come si fa, come si impara? Ma se la bici gira male è perfettamente inutile che l’allenatore dica: “dai spingi su quei pedali, impegnati!”

E ancora, forse ancora più grave. E’ davvero possibile che non esistano in modo ordinario e quotidiano, percorsi per insegnare ai nostri preti la preghiera? Sembra banale, ma più ne conosco e più vedo che sempre meno i preti hanno tempo per pregare. Predicano ad altri corsi e ritiri, ma loro difficilmente si trovano i tempi per viverli per sé stessi. Non è pensabile che ancora oggi, in cinque anni di seminario non esistano percorsi personali di introduzione alla vita spirituale, ai fondamentali di essa. E anche qui, non sto parlando di corsi teorici, ma di percorsi pratici, dove la formazione diventi “laboratorio” su sé stessi e sul proprio rapporto con Dio. 

E ancora! Ma vi pare normale che sia rarissimo che un prete parli con un laico o con un altro prete, di come lui sta in piedi, di cosa gli succede quando sente affetto e attrazione per una donna, o una ragazzina, cosa si dice in testa, e cosa fa per restare fedele? Sarebbe davvero ora che potessimo parlarne alla luce del sole, perché finché resta “non detto” ogni tentazione può insinuarsi e corrodere chiunque. E già parlarne con qualcuno che lo comprende sarebbe un pezzo della soluzione. O vi pare normale che molti preti non vivano relazioni con donne, sul piano amicale, temendo che l’unico piano possibile sia quello genitale? Come se  la propria identità maschile di prete si possa definire senza relazioni significative con donne? E qui si aprirebbe l’enorme capitolo delle relazioni con le madri! Mi ha sempre colpito come S. Teresa d’Avila abbia mantenuto, per molta parte della sua vita di carmelitana un’amicizia con un uomo, come un suo specchio che le ricordava che era una donna, innamorata di Dio, sì, ma una donna.

Se è vero che i preti sono il cuore della Chiesa, come io credo, e che Gesù, col sacerdozio, ci ha fatto un regalo assolutamente impensabile, non dovremmo avere cura di essi tanto quanto l’eucarestia? E non nel modo “sacrale” degli anni in cui ci si inchinava al passaggio del sacerdote per strada. Ma nella relazione sincera, amicale e di confronto aperto, di comprensione umana e dialogante che li può davvero far sentire “parte” della comunità.

Ma forse per fare questo dovrà cambiare anche il modello formativo che segna ancora i seminari. Adesso, ancora adesso, i preti vengono formati ad essere dei “single” dello spirito, che anche in termini teologici è una bella contraddizione in termini! Gli viene chiesto di assomigliare a degli eremiti, senza dargli le condizioni concrete per poterlo essere. Paradossale. E allora, forse, alcune esperienze che stanno tentando di trasformare i seminari da luogo fisico, a percorso ecclesiale condiviso dalla comunità potrebbero essere interessanti novità da tenere in seria considerazione.

Ma vi pare normale che dopo 5 anni chiusi in seminario, un prete sia in grado di “stare”, in questo tipo di mondo, da solo, in una comunità che non conosce ancora, senza riconoscimento sociale, pieno di cose da fare, esposto a tutto e a tutti? Ma chi deve essere? Superman? Cristo non chiede questo. Chiede al prete di essere sé stesso, senza troppi fingimenti, senza falsi perfezionismi, consapevole dei limiti umani e per questo capace di organizzare la sua agenda anche tenendo conto di questi. Gesù scappava sul monte, si rendeva irreperibile, accettava di non poter fare tutto. Basterebbe questo.

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