Mi sono permesso di sottoporre il testo del Manifesto della fede del card. Muller ad una analisi lessicale. Lo so è scorretto. Si potrebbero, infatti in questo modo, rivelare le tracce profonde, non sempre consapevoli, che guidano il pensiero di uno scritto. Ma io sono un peccatore e lo ammetto. Mi permetto perciò qualche riflessione sui numeri che ne sono derivati.
L’area più coperta dalle parole significative è quella ecclesiologica, il 28%. A guardare questi termini appare evidente come 2 su 3 siano legati al ruolo sacramentale che il sacerdote svolge all’interno di essa. (ad es. sacramento, ordinazione, confessione, comunione, battesimo, sacra, vescovi, sacerdoti, potere, maestri). Una sola volta appare il termine popolo: “Compito del Magistero della Chiesa nei riguardi del popolo di Dio è quello di salvaguardarlo dalle deviazioni e dai cedimenti”, dove è palese che il magistero e il popolo siano due entità diverse. Mai compaiono le parole mistero, comunità, servizio, carisma, riferite alla vita ecclesiale. Due volte compare la parola ministero entrambe riferite al potere del sacerdote, una sola volta appare il termine comunione, ma riferito all’essere in comunione con la fede, intesa come un deposito astratto di verità da credere.
Al secondo posto si piazza l’area antropologica con il 23% di parole significative. Due su cinque ricoprono la base essenziale di questa area: ad es. uomo, persona, vita. Altre due su cinque attengono invece all’area dell’adesione razionale a Cristo: ad es. fede, verità, luce, dottrina, catechismo. L’ultima su cinque riguarda l’area percettiva sensoriale emozionale: ad es. vergogna, terribile, beatitudine. Nell’appello finale si legge: “Chiediamo al Signore di farci conoscere quanto è grande il dono della fede cattolica”. Una frase che incornicia bene il quadro antropologico: un uomo molto centrato sulla testa, illuminata dalla fede, volto a cogliere una verità su Gesù Cristo, che porta però in sé l’obbligo interiore di doverla riconoscerla e crea quindi la paura di essere sconfessata. Non c’è traccia della fede come di una relazione tra persone (l’uomo e Dio) e dei concetti di adesione libera a Cristo, o della gradualità di tale adesione. E soprattutto sembra che il mondo emozionale dell’uomo sia irrilevante rispetto alla fede, se non quando segnala la paura di essere condannati. Anche la parola amore compare due sole volte, non riferita né a Cristo, né all’uomo, ma alla verità che da Cristo arriva, ed in entrambi i casi è posta sotto il segno della paura (rifiutare l’amore causa la dannazione eterna).
Ciò è in sintonia con la lettura cristologica, terza area semantica più gettonata, col 18%. Salvezza, redenzione, sacrificio indicano come Cristo si sia incarnato solo per “redimere” l’uomo dalla stato di peccato, che essenzialmente è non riconoscere la verità di Cristo stesso. La grazia infatti è citata solo due volte e sempre in connessione con la possibilità di riconoscere la verità. Noi sappiamo bene come la cristologia neotestamentaria sia molto più larga e veda nell’incarnazione di Cristo anche la realizzazione piena della creazione, che da sempre lo attendeva. Perciò sottolinea anche la glorificazione e la resurrezione di Cristo. Nel testo invece, la gloria di Cristo è citata una sola volta, in rapporto non al suo essere incarnato, ma al suo stato finale nel regno, mentre di resurrezione di Gesù non si parla proprio.
Sarà forse per questo che le parole relative all’area biblica compaiono solo per il 2,9%? Mentre di etica si parla quasi per il 10%. E qui campeggiano termini molto eloquenti: peccato, legge, comandamento, ammonire, volontà. Ovviamente non esistono termini come libertà e discernimento. La parola coscienza compare una sola volta per dire che non è adeguatamente formata. La parola misericordia compare una volta come causa per adempiere i comandamenti e una seconda per indicare che ripristinare la verità è un’opera di misericordia spirituale. La parola carità non compare mai. Un’etica nettamente segnata solo dal dovere, quasi kantiano, del rispetto della regola, dove la volontà volente si deve imporre su un mondo psichico ed emotivo che non ha alcuno spazio positivo possibile nella vita di fede. E in cui la grazia è solamente una luce aggiuntiva alla nostra comprensione della verità, ma non tocca le nostre “passioni”.
Infine uno spazio particolare è riservato alla dimensione escatologica e i novissimi, il 5% delle parole significative. Qui due parole su tre sono connesse a due soli concetti: morte eterna e giudizio di Dio. Ora, benché l’area delle parole con cui si descrive Dio arrivi al 12%, in essa non prevale mai, il tono del Dio misericordioso. A sottolineare, se ce ne fosse ancora bisogno, una concezione di Dio principalmente legata al concetto di giudice.
In tutta onestà, a me sembra davvero un manifesto molto riduttivo della fede. Che si lega ad una visione teologica della fine ‘800, inizio ‘900. Non è questo però che mi fa problema. Ognuno può scegliere di desiderare di vivere nell’epoca che vuole. Quello che non accetto è che una visione limitata e parziale della fede sia spacciata per la visione globale e perfetta, visto il titolo, il tono e la risonanza cercata nella pubblicazione del testo. Qui davvero si vede come avesse ragione chi, in tempi non sospetti, scriveva: “Un pensiero puramente sistematico, che ammette soltanto la presente forma giuridica della Chiesa come criterio delle sue riflessioni, e quindi necessariamente teme che qualsiasi movimento al di fuori di essa sia cadere nel vuoto, si radica nella estraneità alla storia e quindi in fondo in una “carenza” di Tradizione, cioè di apertura verso l’insieme della storia cristiana”. (futuro Benedetto XVI). Non mi risulta che, da papa, abbia mai smentito questa affermazione.