La questione decisiva

Credo che la fede o trova il modo di essere una esperienza che aiuta la persona a ricucirsi dentro, oppure è destinata ad essere fagocitata dal "sistema tecnocratico", che tende a travolgere il soggetto e ad assimilarlo a sé, frantumandolo al proprio interno, per farlo divenire una semplice pedina del gioco.
28 Novembre 2011

Ho rincontrato Giovanni, il mio amico ateo. Ci siamo “sparati” la pizza promessa. E ovviamente abbiamo discusso di Chiesa. E nel bel mezzo di una “capricciosa” mi ha detto: “l’unica possibilità che la Chiesa avrebbe di restare viva, di essere socialmente rilevante, sarebbe quella di cominciare davvero a fare quello che proclama. Troppe parole e pochi fatti coerenti”. E ovviamente si è allungato in una serie di contraddizioni oggi ben visibili: la pedofilia, Don Verzé, gli sconti sulle tasse degli immobili, la vita sessuale media dei fedeli… “E’ come, per dirla come la dici tu, se viveste la fede solo con la testa e qualche volta col cuore, ma quasi mai col corpo”.  Mi è quasi andato di traverso il carciofino addentato! Cavolo, eh no, sono io che penso queste cose, non tu, ho detto dentro di me.

E questa sua frase mi ha fatto ripescare alcune schegge di memoria. Ad Istanbul poco tempo fa, mi è capitato di assistere alla presentazione a mo’ di spettacolo del rito religioso Sufi dei Dervishi, gli uomini rotanti. Per quattro volte ripetono questo vorticoso girare su sé stessi in piedi, fino ad andare in una specie di “trance” mistica. Un modello di spiritualità vera e propria che sta in piedi (è proprio il caso di dirlo!) sul corpo. Sempre lì, il giorno prima, in una piccola moschea affacciata sul Bosforo ho assistito alla preghiera islamica di metà pomeriggio. Tra i fedeli, una decina, c’era un signore corpulento, di almeno 70-75 anni, che per inginocchiarsi e prostrarsi a terra fino a toccare con la fronte, mostrava uno sforzo fisico enorme. E non si scontava nemmeno un gesto, pur se faticoso. Una preghiera davvero fisica!

E poi mi sono venute in mente due frasi, raccolte al volo durante discussioni in classi, coi miei studenti. In prima, Tomas, a proposito dell’aldilà: “Prof. , ma la resurrezione non ha senso, che ce ne facciamo del corpo se non viviamo su questa terra più, meglio la reincarnazione, almeno ho la possibilità di vivere di nuovo qui”. E Giovanna, in terza, mentre si discute di eutanasia: “Ma insomma, mica possiamo considerare vita quella dove solo il corpo funziona…”. La stessa Giovanna che porta scolpito a fuoco sulla pelle un tatuaggio di una farfalla volante!

E alla fine della mia “prosciutto e carciofini” ho pensato, mentre Giovanni continuava contro la Chiesa: ma non è che la questione del corpo sia la questione decisiva della fede oggi, il nocciolo sulla quale la fede sta o cade? Voglio dire che la frantumazione interna che oggi viviamo è davvero grande. Le persone hanno un “baricentro basso”, vivono sentendo più che pensando. E sempre più spesso testa, cuore e corpo non hanno collegamento l’uno con l’altro. Oggi non è rilevante la coerenza logica di una teoria, quanto la possibilità che essa dà di sperimentare emozioni e sensazioni. E che ci piaccia o no, le nostre idee vengono recepite secondo questo binario.

Perciò credo che anche la fede o trova il modo di essere una esperienza che aiuta la persona a ricucirsi dentro, oppure è destinata ad essere fagocitata dal “sistema tecnocratico”, che tende a travolgere il soggetto e ad assimilarlo a sé, frantumandolo al proprio interno, per farlo divenire una semplice pedina del gioco. E se vogliamo evitare questo rischio, la questione del rapporto tra spirito, anima e corpo non può più essere elusa.

In una quarta, mentre sto cercando di spiegare la base cristiana della moralità, Ines mi colpisce con una domanda inaspettata: “Ma se l’amore è la base della moralità cristiana, allora non è una questione razionale, ma sentimentale”. Ovviamente anche lei risente della frantumazione antropologica in cui viviamo, ma poi quando leggo il numero 1767 del Catechismo della Chiesa Cattolica, qualcosa non mi torna. Li, infatti si disegna un rapporto tra mente cuore e corpo in cui la ragione domina le emozioni, che sono pensate il tramite tra spirito e corpo. Ma poi ai numeri 1765 e 1770 si afferma che l’amore è una passione (una emozione, diremmo oggi) e che la perfezione morale si ha quando l’uomo è spinto a fare il bene non solo dalla mente, ma anche da suo cuore e dalla sua carne. E si cita il salmo 84,3: “Il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente”.

Forse anche in questo senso andrebbe ripresa e rimeditata la frase di Tertulliano, prima di diventare Montanista: “La carne è il cardine della salvezza”. Perché noi la domenica ci nutriamo del corpo di Gesù, non appena del suo spirito. Perché la fede sta o cade solo se le nostre azioni, fisiche e sociali, non solo spirituali, riescono a fare “apparire” Dio nel tempo in cui viviamo. Perché se vogliamo ritornare a vivere liturgie (e comunità) che siano davvero culmine e fonte della nostra vita di fede dovremo anche essere capaci di sentirci dentro gioia, perdono, amore, ringraziamento, contrizione del cuore, condivisione coi fratelli.

Non si può pensare di essere significativi agli occhi degli uomini di oggi se non sappiamo mostrare che la nostra vita è intera, e che “spirito, anima e corpo, sono irreprensibili, nell’attesa della venuta del Signore” (1 Tess. 5,23)

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