Con la pazienza che è richiesta, quasi come una necessità, a tutti coloro che intendono avvicinare e affrontare un argomento nuovo e soprattutto poco trattato, proviamo a continuare questo nostro percorso alla scoperta dell’incarnazione profonda, in cui attraverso diverse tappe proviamo a tracciare contorni sempre più nitidi e aggiungere pennellate di colore a un’immagine teologica che promette di regalarci prospettive e intuizioni feconde per la nostra vita di fede.
Rimandando ai primi due contributi per quanto riguarda i fondamenti biblici dell’incarnazione profonda così come la ricaduta salvifica delle argomentazioni per l’intero mondo creato, in questa terza tappa vogliamo interrogarci sull’effettiva novità di questa proposta e sul suo radicamento nella tradizione.
È molto facile, infatti, laddove si promuovono come innovative determinate ricerche teologiche, restare delusi quando, non appena si “gratta” un poco al di sotto della superficie, ci si accorge che in realtà non c’è quella solidità e profondità di vedute che ci si aspettava di trovare. In questi casi si rischia di rimanere con “l’amaro in bocca”, accorgendosi di trovarsi di fronte a parole nuove per dire, in fondo, quello che si è sempre detto.
Per questo motivo è particolarmente rilevante il fatto che i teologi e le teologhe dell’incarnazione profonda non cerchino l’esclusiva a tutti a costi e non vogliano propagandare l’eccezionalità di una teologia fine a se stessa. Al contrario, tutti e tutte si rivelano impegnati/e ad affermare il proprio radicamento nella più autentica tradizione, canonica e patristica. Cerchiamo allora di offrire anche in questo caso poche pennellate, ma dai colori accesi, per chiarire il retroterra e le radici teologiche riscoperte e custodite da questa sensibilità teologica.
1. Una tradizione da recuperare
Atanasio di Alessandra, Ireneo di Lione, Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo, Massimo il Confessore e, volendo arrivare più avanti fino al Medioevo, anche Bonaventura da Bagnoregio. Sono questi alcuni dei nomi che con maggior frequenza ricorrono nei lavori e nelle riflessioni dei teologi e delle teologhe dell’incarnazione profonda, un elenco che ci aiuta fin da subito a capire come questa teologia desideri confrontarsi con tutta la grande tradizione teologica delle origini. O quasi…
Chi è avvezzo allo studio della storia della teologia, in effetti, potrebbe notare, in questa veloce carrellata, un “buco” notevole. Si passa infatti dai due padri Cappadoci (Gregorio di Nissa e di Nazianzo, IV secolo ca.) a Massimo il Confessore (morto nel 662). In poche parole, si saltano gli anni che immediatamente precedono e seguono il concilio di Calcedonia del 451.
L’assenza, in questo caso, non è mai stata tanto eloquente. A giustificarla, infatti, è la prospettiva sposata e in un certo senso difesa dai teologi della deep incarnation, impegnati a recuperare un discorso cristologico (e quindi teologico) lontano dagli scontri, dai tecnicismi e dalle difficoltà (spesso sterili) di un orizzonte metafisico e ontologico, per volgere invece la propria attenzione a una più genuina riflessione radicata sulla storia della salvezza e sul dettato biblico. L’impressione, in questo senso, è che proprio l’opera dei primi Padri respiri ancora di questo fondamento, che sembra essersi “perso” proprio con la definizione di Calcedonia e una certa “ontologizzazione” del discorso di fede cristiano.
L’intento, comunque, non è quello di riproporre la solita alternativa tra linguaggio ontologico e linguaggio biblico, mettendo Bibbia e filosofia l’una contro l’altra. Al cuore del discorso si colloca piuttosto la volontà di tornare a pensare e a parlare di Dio a partire da quello che Dio stesso ha detto e, soprattutto, come l’ha detto: nella storia di Gesù. Non è un caso, infatti, che al centro si trovi sempre l’incarnazione e la croce. L’aspetto kenotico (di svuotamento) della rivelazione di Dio è insuperabile per poterne parlare e non può essere “esaurito” o peggio sostituito da una “bramosia di definizioni”.
Per meglio chiarire questa prospettiva di “ripresa” della tradizione, vogliamo offrire solo un affondo emblematico. Scorrendo le opere dei cosiddetti padri niceni e preniceni, nello specifico Ireneo di Lione e Atanasio di Alessandria, si può facilmente riscontrare una convinzione di fondo: il farsi carne del Verbo è comprensibile in tutta la sua profondità solo se letto all’interno di un unico disegno divino, un’unica storia della salvezza, che è iniziata con l’atto creatore e terminerà con la divinizzazione del creato. In questa storia, l’incarnazione rappresenta l’apice, il vertice che rivela in maniera definitiva il volto di Dio come amore, come dedizione. Qui Dio si è donato ed è disceso in mezzo alla sua creatura per renderla partecipe della propria presenza, per rivelare il proprio volto di Padre e donarle lo Spirito che la potrà trasformare e redimere.
È emblematica un’espressione che ritroviamo nel De Incarnatione Verbi (L’incarnazione del Verbo) di Atanasio:
Egli [Dio] non permise che la creazione tacesse, ma – e questa è la cosa mirabile –, anche nella morte, o piuttosto nella vittoria sulla morte, voglio dire sulla croce, tutta la creazione confessava che colui che si faceva conoscere e soffriva nel corpo non era semplicemente uomo, ma Figlio di Dio (§ 19).
L’interpretazione rimanda ai fenomeni naturali avvenuti durante la crocifissione così come descritti, ad esempio, nel Vangelo di Matteo (27,45.51-52). Tutto il creato partecipa della rivelazione di Gesù sulla croce come Figlio di Dio e così si apre alla conoscenza del vero volto di Dio, per iniziare quel cammino di conversione che lo porterà poi a prendere parte del compimento divino escatologico.
Non possono non tornarci alla mente le riflessioni e i concetti che abbiamo già riscontrato nelle puntate precedenti. L’unica economia salvifica si fonda proprio sul fatto che lo stesso Verbo creatore è colui che si è incarnato e che nella sua carne, assunta e risorta, ha coinvolto l’intero mondo creato.
2. Dai Padri al canone
D’altro canto, questo radicamento nella tradizione è in sé solido e decisivo proprio perché a sua volta rimanda in maniera costante a quanto ritroviamo a più riprese nel canone del Nuovo Testamento.
In particolare – al di là del più volte citato rimando giovanneo alla “carne” del Figlio così come al “corpo” di Gesù nei sinottici – questa tematica di un’unica storia della salvezza, che parte da colui in cui tutto è stato creato e che giungerà a compimento quando a lui tutto sarà sottomesso, è centrale nell’epistolario paolino. 1 Corinzi 15,20-28; Romani 8,19-23; Colossesi 1,13-20; Efesini 1,3-14… Questi, come molti altri, sono solo alcuni dei brani che potremmo citare in cui, con chiarezza, si confessa come «il primogenito della creazione», colui che è «in principio» e che si è fatto uomo in Gesù di Nazaret, è anche colui che ricapitolerà in sé ogni cosa e a cui tutto sarà sottomesso. In lui avremo «l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo». È questa liberazione, questa divinizzazione (come direbbero i Padri) ciò che la creazione aspetta fin d’ora, il compimento anticipato nella risurrezione di Gesù e che è stato promesso a ogni creatura, fino a che «Dio sarà tutto in tutti».
Questi pochi accenni, senza voler fare una disquisizione troppo tecnica, credo siano sufficienti a confermare l’intenzione dichiarata in apertura. La teologia dell’incarnazione profonda non pretende di stravolgere il discorso teologico in quanto tale. Questo, forse, sarebbe anche troppo semplice. Il tentativo, semmai, è di recuperare una visione e una tradizione di pensiero che troppo facilmente è stata messa da parte, sostituita da un interesse (spesso morboso) per la definizione, il lessico tecnico, l’analisi teorica (parlando di natura, sostanza, persona ecc.) a discapito potremmo dire di una sintesi storico-salvifica. Tutto questo ha portato a dimenticare l’orizzonte biblico necessario per comprendere a pieno la storia di Gesù, la sua identità di Figlio e di Messia, il senso della sua esistenza non solo per l’umanità ma per l’intero creato. Perché tutto ciò che esiste (non solo l’essere umano) è coinvolto fin dall’inizio dall’agire di Dio Trinità e tutto, alla fine dei tempi, sarà accolto nuovamente da quello stesso Dio, che in sé custodisce l’alterità che lui stesso ha voluto, amato, creato e assunto personalmente, in profondità.
“….un unico disegno divino, un’unica storia della salvezza, che è iniziata con l’atto creatore e terminerà con la divinizzazione del creato.”
….. fino a che «Dio sarà tutto in tutti».”
Se si crede che Dio ha dato al “Creato” cioè Universo, Bios, vivente, uomo.. completa libertà….
Se si pensa che l’ipotesi del BIG FREEZE è la + probabile, secondo quasi tutti gli scienziati..
Se si scartano le tesi attuali dei post&trans-teisti che la stessa materia sia dotata di libero arbitrio e coscienza….
SE conseguentemente si crede nello sviluppo autonomo che ha portato all’Uomo come stato più completo dell’esistenza
SE quindi si fa distinzione tra ‘creato’ e Uomo, che resta la vera Missio di Gesù e non certo Dio o il creato da divinizzare…
… se.. se.. se..qualcosa di qs. Teoria scricchiola..
Infine non credo che Dio avesse alcuna intenzione di annullare la ns. partecipazione alla costruzione della ns. salvezza.
Ci rispetta troppo.
In un periodo di pot/trans la prima cosa da fare è intendersi sul significato delle parole.
Divinizzare la Creazione?
Prima assodare che si tratta di diversità tali che nn puoi ridurre/mettere dentro una all’altra. E qs ci libera da ogni fot.a di PAN-….
Poi se analizzi la creazione con Darwin capisci che tutto si è sviluppato in modo LIBERO e autonomo.
Quindi niente Intelligent design, sta scritto ecc ecc
Mi fermo: digerire as due punti base richiede impegno!!😅😅
“Dio si è fatto uomo, perché l’uomo si facesse Dio”..se non sbaglio, l’ha detto Sant’Agostino..
Perché invece, oggi, in epoca di materialismo spinto, ci sentiamo talmente lontani da Dio, da voler marcare una differenza insanabile? Cosa sarà mai la Salvezza, se non proprio colmare questa distanza?
E questo dipende da noi, il processo è libero e, verrebbe da dire, purtroppo..
D’altronde, quando si parla di ricapitolazione finale in Cristo, secondo me, significa che la/il fine della creazione è “divenire” Cristo, o perlomeno il divenire consapevoli di essere, anche ora, – se riusciamo un minimo ad allargare i confini della percezione che ci fa sentire come isole -, nel Respiro di Cristo..
Il Regno è qui, è vicino..e dipende da noi viverlo e concretizzarlo..quando la Materia risorgerà nello Spirito, identificandosi in Esso…
Un Logos incarnato, ancor più nel profondo, credo, voglia dire “dentro” alla creazione.
Ma allora è dall’interno che va avanti il processo di divinizzazione del creato.
E Gesù, è proprio un uomo, di carne, che ha pienamente accolto quel Dio in Sé.
È quel Dio che “scende” in terra dall’esterno, e che non emerge piuttosto dall’interno, che dà ancora l’idea di separazione, come tra due enti finiti e circoscritti, che forse va superato.
Io credo che Gesù abbia incarnato in sé il Cristo, ma credo che tutto il Creato lo incarni, a vari livelli di manifestazione.
E la differenza tra l’Uomo divino Gesù e il resto dell’umanità in cammino, è proprio in questo “livello” di consapevolezza e di coscienza di sé.
Da cosa è venuto a salvarci Gesù? Dal peccato? Ma quale peccato più grande può essere, se non quello di non riconoscere lo Spirito in sé, cioè la propria natura?
Forse sarebbe utile che le pagine bibliche precedenti la Parabola, l’Officiante dovrebbe farne cenno e trarre chiarimento e connessione quella Parola che precede con quella evangelica, arrivando così a meglio porla a riflessione. Se il Messaggio non raggiunge l’ascoltatore, e lil fedele si trova lì in quel giorno e non in altri, quale aiuto egli acquisisce affinche il suo operare guadagni in aiuto a miglior discernimento nelle sue scelte, nella sua vita quotidiana.? Quando vi è l’interesse all’ascolto tutta la funzione diventa più partecipata. Per un credente e’ una ricchezza anche quel tanto domenicale che ascolta. Cristo parlava da dove si trovava e i riferimenti erano le cose dai luoghi così che i non acculturati apprendessero come allo stesso modo dei dotti. Quanto l’ascoltatore comprende dipende dalla sua sensibilità e disposizione Della sua mente e intelligenza del cuore. Forse non si considera che l’ oggi esige ancora e più un fare nuova catechesi.
A caldo:.
1) la preokkupazione di ” Io nn rompo con la tradizione”!! Evidente neiia mole dei richiami delle note a margine, potrebbe
indicare timore di emarginazione,ossequio all’imperante.. cmq imo la vedo come chiusura alla libertà
2) io rifiuto la kenosi in quanto incompatibile con Dio UNO tutto. È lo stesso discorso di Dio che manda a morte il Figlio x sanare la sua ritorsione vs l’uomo
3) la Creazione, che oramai vedo assorbire Dio in tutte le recenti teologie.. non è compatibile in una evoluzione totalmente libera e indipendente da Dio
Mi fermo..già troppo