Il CCC, parlando della natura umana dopo il peccato originale, al numero 405 così recita: “è ferita nelle sue proprie forze naturali, sottoposta all’ignoranza, alla sofferenza e al potere della morte, e inclinata al peccato”. E aggiunge che, anche dopo il battesimo, “le conseguenze di tale peccato sulla natura indebolita e incline al male rimangono nell’uomo”. Tradotto significa che qualsiasi attività l’uomo intraprenda, porterà sempre con sé l’incrinatura dovuta al peccato, anche in quelle persone, strutture e forme segnate dalla grazia di Cristo.
Ho provato ad applicare questa verità di fede all’attività religiosa, intesa come organizzazione concettuale, rituale ed etica atta a definire e veicolare i modi e le forme per permettere all’uomo l’accesso al trascendente.
Prima del peccato originale, per l’uomo il rapporto con Dio era diretto e immediato. Dio “camminava nel giardino sul far della sera” e l’uomo non aveva necessità di nascondersi alla sua vista, benché fosse nudo. Era Dio stesso che teneva le redini di questo rapporto, creando l’uomo, disponendone il ruolo nel mondo e ammaestrandolo perché potesse vivere bene. L’uomo, dal canto suo, non mostrava segnali della “ricerca” di Dio, di sentirne la mancanza, di richiederne una presenza maggiore e un modo per accedere alla sua attenzione, perché tutto questo c’era già, ma al contrario era Dio che si prodigava in ogni modo per l’uomo.
Fino qui, cioè, non ci sono tracce di quelle che le scienze etnografiche indicano come “matrici della religione”, cioè il bisogno di conferire senso ad un mondo non direttamente comprensibile, che spesso è percepito come una minaccia, che spinge l’uomo a ricercare le vie per difendersi dallo strapotere della divinità o per accedere al suo utilizzo. È difficile, perciò, restando fedeli al CCC, smentire la tesi secondo cui le religioni siano possibili solo dopo il peccato originale e non prima.
In effetti, a ben guardare, quando nell’A.T. si descrivono le attività religiose degli uomini, tre caratteri che possono essere ricondotti alle conseguenze del peccato, sembrano essere quasi sempre presenti.
Primo. Dopo il peccato la coppia primordiale si nasconde agli occhi di Dio per paura. Da lì in poi tutta l’esperienza veterotestamentaria è intrisa del “sacro timore” dell’accesso alla divinità. E moltissimo dell’organizzazione religiosa di Israele si gioca proprio sulle forme con cui, accettando questo sacro timore, si può accedere alla trascendenza senza essere colpiti dal suo strapotere. Dal canto loro, le scienze etnografiche ci mostrano come una delle radici della nascita della religione sia proprio nell’esperienza del “tremendum”, di esperienze che mettono seriamente a rischio la sopravvivenza delle persone, in cui l’uomo immagina la presenza del trascendente all’opera.
Secondo. Dopo il peccato l’uomo copre la sua nudità che ora diviene segno del limite e dell’impotenza dell’uomo. Limite e impotenza che si rivelano anche nel rapporto con Dio, tanto che in tutta la storia veterotestamentaria Israele costruirà una enorme impalcatura di riti e regole per poter “avere a che fare” con la trascendenza, per poter permettersi di sentirsi all’altezza di svolgere atti “sacri”, cioè connessi con la trascendenza. E anche qui le scienze etnografiche ci mostrano come uno dei caratteri costanti dell’espressione religiosa sia la costruzione di riti, attraverso i quali l’uomo immagina di poter “andare oltre” sé stesso e poter agire le cose “sacre”.
Terzo. Dopo il peccato l’uomo non ha più accesso diretto alla trascendenza, si ritrova fuori dall’Eden, con la via del ritorno sbarrata. Perciò è costretto a “impiantare” tra i suoi stessi simili, la presenza di esseri “a parte”, dotati di poteri particolari, che consentono di superare questo “gap” e che costruiscono la mediazione, ormai inevitabile, per accedere alla trascendenza. Dato, di nuovo, confermato dalle scienze etnografiche, che evidenziano come non esistano costruzioni religiose senza l’esistenza di “mediatori” umani a cui, però, siano assegnati poteri tali da consentirgli un accesso al soprannaturale, escluso agli altri.
Sembra perciò che l’esistenza di questi fattori, tipici e caratterizzanti le religioni siano da far risalire alla condizione di peccato dell’uomo, e che tali caratteri siano necessari alla religione proprio in forza di questa condizione peccaminosa umana. Allora però sarebbe sensato chiedersi: quando ci si appunta su tali caratteri (timore, riti, mediatori) e li si mette la centro della dimensione religiosa, rendendoli essenziali per la vita e lo sviluppo della dimensione spirituale, non stiamo forse involontariamente contribuendo a dare corpo al peccato? E ancora: la religione che scaturisce dal vangelo come si struttura in rapporto a questi tre caratteri? Proverò in un secondo articolo a mettere giù qualche riflessione su queste domande.