Francesco, un Papa di transizione?

Rileggere il pontificato di Francesco a partire dal suo approccio ecclesiologico potrebbe dare nuova luce a tanti altri temi cari al vescovo di Roma.
25 Aprile 2025

In questi giorni, com’è naturale, si moltiplicano analisi e commenti sul pontificato di Papa Francesco. Senza voler essere irriverenti, da un punto di vista comunicativo si può intravedere una dinamica quasi-eucaristica: il corpo del Papa è stato simbolicamente frantumato, trasformato in contenuto digitale, vivisezionato, condiviso e commentato anche da chi, pur con un’incerta alfabetizzazione religiosa, si è lanciato in ardite e spesso sconclusionate analisi del pontificato. Molte di queste riflessioni appaiono affrettate, quando non superficiali, espresse da voci poco competenti, prive di formazione teologica o anche più banalmente religiosa, che quindi leggono la parabola del pontificato con categorie umane, troppo umane, inevitabilmente parziali e inadeguate.

Vorrei proporre tre considerazioni di carattere ecclesiologico, lasciando volutamente da parte altri grandi temi di questo pontificato, come il pensiero aperto, la Chiesa “ospedale da campo”, la conversione ecologica, l’opzione preferenziale per i poveri, l’appello alla pace che, però, possono ricevere nuova luce se riletti a partire dal suo approccio ecclesiologico.

 

Il Papa come vescovo di Roma

Anche se non tutti ne hanno consapevolezza, il Concilio Vaticano II ha promosso un nuovo paradigma ecclesiologico, centrato su quella che viene definita “ecclesiologia di comunione”. In essa la Chiesa non si riconosce innanzitutto come una realtà gerarchica e piramidale, ma come una comunità di credenti uniti dalla fede, dai sacramenti e dalla carità, avente in Cristo il proprio centro. Il termine “comunione” (dal greco koinonía) esprime proprio una relazione viva tra Dio e l’umanità, e tra i membri stessi della Chiesa. Il sacerdozio ministeriale e quello comune, in quest’ottica, non sono antagonisti ma complementari. Il Papa, come ogni ministro ordinato, è chiamato anzitutto al servizio del popolo di Dio.

Francesco ha insistito più volte su questo punto, preferendo riferirsi a sé stesso con l’antico titolo di “vescovo di Roma”: segno di un papato dal volto pastorale, non mondano. Come ricorda la Lumen Gentium, il Papa è “il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli”. Da ciò emergono due aspetti decisivi: il Papa non è un autocrate onnipotente, ma un ministro al servizio dei fedeli; e al tempo stesso, è colui che custodisce e promuove l’unità della comunità cristiana, come dono dello Spirito.

L’ecclesiologia di comunione non si è ancora pienamente realizzata nella prassi. Spesso a livello centrale. Più spesso a livello locale. Questa esperienza e le personalità forti degli ultimi papi, con l’eccezione, forse, di Benedetto XVI, hanno contribuito ad accentuare la centralità della figura papale. La popolarità di Francesco, quindi, ha alimentato un paradosso: pur promuovendo una Chiesa di comunione, in linea con il Vaticano II, ha finito per accentrare su di sé un’attenzione che restituisce, all’esterno, un’immagine non più in sintonia con i tempi ecclesiali. Le critiche circa un presunto ristagno dottrinale o le mancate prese di posizione se da un lato fotografano un’idea di papato ancora ancorata al modello del Vaticano I, dall’altro sono il segno di un processo che è ancora tutto in divenire.

Francesco è stato una voce della Chiesa, la voce dell’unità. Una voce, non l’unica. Il suo compito non era quello di incarnare da solo ogni istanza di riforma o ogni anelito di rinnovamento, ma piuttosto quello di offrire spazio perché altre voci emergessero, si esprimessero, trovassero legittimità, senza però che questa polifonia mettesse a repentaglio l’unità. Ora: è facile essere simbolo di unità quando le voci sono poche, omogenee o si esprimono esclusivamente all’interno del circolo degli addetti ai lavori. Ma come si fa quando le differenze si fanno visibili, talora conflittuali, e restituiscono il volto di una Chiesa complessa, plurale, talvolta divisa? Si tratta di una Chiesa che fatica a trovare l’unità nella differenza, sempre in bilico tra la ricchezza della Pentecoste e la confusione della torre di Babele. Papa Francesco, forse per la prima volta nella storia, ha dovuto governare una realtà ecclesiale sempre più frammentata, spesso in aperta opposizione interna. Accelerazioni drastiche, anche se impresse dal Papa, avrebbero potuto trasformare la Chiesa in un’esperienza forse più radicale, ma non necessariamente più cattolica, nel senso pieno, universale, del termine.

 

La sinodalità come stile della Chiesa

In questo contesto, la scelta di papa Francesco è stata netta: non negare la complessità, ma farla emergere. Non ridurre all’uno, ma aprirsi al molteplice. Una Chiesa che non esclude, ma include — anche con tutta la fatica che l’inclusione comporta. Questa sfida si è incarnata nel processo sinodale. Il sinodo non è stato l’ennesimo evento da celebrare, ma un processo lungo, faticoso, a volte incerto, che ha scelto come chiave interpretativa il discernimento comunitario. Si tratta di una grande novità che, come accade nella Chiesa e come ha sottolineato esplicitamente nell’ormai celebre discorso alla curia di Benedetto XVI, non può che muoversi nel solco della continuità: in un contesto sociale sempre più frantumato in microbolle autoreferenziali, il sinodo ha proposto una prassi di riflessione condivisa. Anche questa è una rivoluzione: ecclesiologia di comunione oggi significa dare voce alle soggettività ecclesiali; valorizzare ciò che sembra ai margini, ma in realtà è pienamente Chiesa; promuovere uno stile fatto di ascolto, cammino comune, confronto. I frutti non sono ancora visibili. Le resistenze sono reali, anche perché molti, in un’epoca di fede “a bassa intensità”, scelgono di camminare in solitaria, perché più semplice. È facile essere incendiari, profeti di futuri possibili, quando non si porta il peso e le responsabilità del presente. Ma, per esempio, anche i credenti più ancorati a modelli tradizionali sono figli della Chiesa. Chi dovrebbe prendersi cura di loro, se non la Chiesa stessa? Il sinodo sta provando a far emergere un nuovo stile ecclesiale in tempi in cui l’idea stessa di comunità, di partecipazione, di responsabilità condivisa si sta sgretolando. Una chiesa che non ha a che fare con una pecorella smarrita, ma che è composta di tante pecorelle smarrite che non sanno più e devono imparare a essere gregge.

 

Oltre la dicotomia tra progressisti e conservatori

La tradizionale opposizione tra progressisti e conservatori oggi è insufficiente per leggere la realtà ecclesiale. Non solo è un arnese datato, ma non riesce a inquadrare papa Francesco, se non al prezzo di innumerevoli distinguo. In realtà, l’articolazione più profonda su cui papa Francesco ha cercato di innestare il proprio magistero non è tanto la contrapposizione tra progressisti e conservatori, quanto la tensione tra due forme ecclesiali fondamentali: da una parte, la Chiesa della consapevolezza, depositaria di una fede pensata, riflessiva, saldamente ancorata alla teologia e ai testi; dall’altra, una Chiesa popolare, che vive una fede più esistenziale, immediata, spesso disordinata, ma non per questo meno autentica. Entrambe queste dimensioni, nella visione di Francesco, non solo coesistono, ma si arricchiscono reciprocamente. La sua teologia, estranea per motivi storici e geografici a molte dinamiche eurocentriche, concepisce la Chiesa come un corpo vivente e plurale, che va dalla forma più accademica e sofisticata fino a quella più irregolare e popolare. Un corpo ecclesiale in grado di essere chiesa docens e, allo stesso tempo, discens. Si tratta di un autentico rovesciamento della logica tradizionale, che separava rigidamente chi insegna da chi impara: papa Francesco ha invitato a riconoscere il valore anche di quella che potremmo definire una “fede anonima”, non addomesticata, non sistematizzata, eppure capace di insegnare qualcosa anche a chi è portatore di una fede più strutturata. È un invito a considerarsi meno “esperti di Dio” e più rabdomanti dei segni dello Spirito nei cuori umani. In questa prospettiva, lo spirito sinodale assume una valenza profonda: non si tratta di imporre un modello normativo unico, ma di riconoscere, accogliere e valorizzare i molteplici modi in cui la fede si esprime. Una Chiesa che sa ascoltare le differenze, che sa lasciarsi interpellare dalla varietà delle culture e delle esperienze, è una Chiesa capace di arricchirsi. È in questa ricchezza che si manifesta, forse più chiaramente che altrove, l’universalità del corpo ecclesiale.

 

Una Chiesa in transizione

Alla luce di quanto detto, credo si possa affermare che papa Francesco sia stato un papa di transizione per una Chiesa in transizione. Non nel senso superficiale e cronachistico di chi traghetta da un’epoca a un’altra, ma nel senso più profondo di chi ha saputo inaugurare processi, avviare dinamiche, dischiudere cammini che restano tuttora aperti. Il segno della transizione non è la provvisorietà, ma l’incompiutezza feconda. Francesco è il papa del pensiero aperto: non colui che cerca ciò che già conosce, ma chi si mette in ascolto di ciò che ancora non è stato detto. Non colui che definisce dall’alto, ma chi apre spazi condivisi in cui discernere insieme. È un pontefice che ha guidato la Chiesa in un nuovo Esodo. E come nell’Esodo biblico, anche in questo caso la terra promessa è ancora lontana. Eppure, proprio quel cammino imperfetto, irregolare, talvolta accidentato, è già un cammino di libertà. Non c’è liberazione senza fatica, non c’è promessa senza attesa. E forse, più che mai, è in questo tempo di transizione che si gioca il futuro della Chiesa.

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