Auguri Nicea!… ma perché?

Fare memoria del concilio di Nicea vuol dire anche ricordare il compito che ha sempre la teologia: rendere attuale il messaggio originario di Gesù il Cristo
20 Maggio 2025

325-2025: 1700 anni dal concilio di Nicea, iniziato secondo alcuni proprio il 20 maggio. Un anniversario che ormai ha saturato le agende con conferenze, articoli, contributi, libri, scalzato forse solo di recente dalla morte di papa Francesco e dall’elezione di papa Leone XIV. Resta, tuttavia, un compito non così agevole provare a spiegare a chi resta ai “margini” della vita ecclesiale, perché sia tanto importante (se effettivamente lo è) ricordare questo concilio, andando magari un passo oltre la semplice risposta che si tratta del “primo concilio ecumenico” (con tutte le precisazioni che questa definizione comporta, a partire dal senso di “ecumenico”). Vogliamo provare allora con semplicità a richiamare due punti per noi fondamentali, uno più formale l’altro più di contenuto, attorno ai quali si può ricostruire il senso e l’importanza di quell’evento e quindi della celebrazione del suo anniversario.

1. Innanzitutto ricordare il concilio di Nicea significa celebrare il Simbolo di fede nato da quel concilio, in gran parte coincidente con quello che ancora oggi si recita durante la celebrazione eucaristica. D’altro canto, ciò che più conta non sono le parole in sé che ci sono state consegnate, bensì il fatto stesso di aver composto un Simbolo. In questo modo, infatti, la comunità ecclesiale ha voluto trovare nuove parole per dire in sintesi quello che già si diceva nelle Scritture (Antico e Nuovo Testamento) e tuttavia risultava facilmente fraintendibile o addirittura non più comprensibile. Insomma, il primo merito del concilio di Nicea è stato quello di aver tradotto con parole nuove il senso salvifico dell’evento Gesù, riscrivendo alla luce di quest’ultimo l’immagine stessa di Dio.

Possiamo domandarci a questo punto: non è forse questo il senso e lo scopo ancora oggi della teologia e forse, addirittura, del compito missionario di tutti coloro che appartengono alla chiesa? Provare a trovare parole sempre nuove, vivere all’interno della propria epoca e della propria cultura per declinare nell’attualità la verità eterna e salvifica di Cristo? Ecco dunque che ricordare Nicea significa anzitutto ricordare la radice profonda della vocazione ecclesiale, come chiesa che vive nella storia e deve sempre di nuovo imparare a parlare all’umanità di oggi.

D’altra parte è il Simbolo stesso a richiedere questo compito. Se il “simbolo” (come ci ricorda l’etimologia) è un oggetto spezzato tra due alleati affinché possano riconoscersi sempre come tali, il Simbolo di fede riunisce attorno a un testo e ha dunque un carattere linguistico, e in quanto tale segue il carattere storico di ogni lingua, che muta, cambia e addirittura può morire. Non è un oggetto sempre uguale a se stesso ma richiede un costante aggiornamento, chiede di essere sempre ri-detto affinché sia sempre vera e consapevole l’unione simbolica (in senso forte) che vuole generare.

È così, allora, che ricordare Nicea diventa in realtà sempre un ripartire da Nicea, per leggere la fede dentro nuovi orizzonti.

2. Un secondo punto, poi, è legato all’immagine di Gesù che emerge dal Simbolo. I Padri di Nicea non hanno avuto timore a dire che Gesù era Figlio di Dio e che questa definizione non dev’essere intesa come una “metafora” o un modo di dire qualsiasi, in assenza di qualcosa di meglio. Come ogni figlio condivide l’essere della madre e del padre, così anche il Figlio condivide l’essere del Padre. È il senso del tanto dibattuto termine homousios, che per l’appunto significa “della stessa sostanza”. Questo termine, da un lato, conferma quello che già abbiamo detto: è un termine extra-biblico che interpreta il dettato biblico, un intruso ellenistico (per così dire) cui viene affidata la responsabilità di ri-dire la salvezza ebraica. Dall’altro lato, il termine indica un’assoluta uguaglianza tra Padre e Figlio (lo Spirito rimane dietro le quinte al momento). Ciò significa che colui che si è fatto carne non era un qualche “angelo” o un “semi-dio” ma «Dio vero da Dio vero». Ciò che avviene nella storia di Gesù, dunque, è la rivelazione stessa di Dio. Solo a partire da lui possiamo conoscere l’autentica immagine di Dio. Questa consapevolezza messa nero su bianco da Nicea ribalta completamente (o per lo meno dovrebbe) il nostro modo di pensare Dio. Tutto ciò che possiamo dire di Dio, infatti, dovrebbe partire proprio dalla storia di Gesù. Il concilio di Nicea (per quanto possa sembrare paradossale, stando a quello che abbiamo detto prima) ci ricorda che non sono le categorie filosofiche a definire il Dio rivelato in Gesù (onnipotente, onnipresente, immortale…), bensì che è Gesù a definire chi è Dio, che così si è rivelato; dunque, quelle categorie non definiscono ma semmai sono definite da Gesù, dal Crocifisso risorto. Riusciamo vagamente a immaginare cosa questo dovrebbe comportare nell’immaginario comune con cui si pensa a Dio?…

3. «Celebrare Nicea nel suo 1700° anniversario, significa anzitutto meravigliarsi del Simbolo che il concilio ci ha lasciato e della bellezza del dono offerto in Gesù Cristo, di cui è come l’icona in parole». Così troviamo scritto al n. 7 del documento della Commissione teologica internazionale, Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore, dedicato al concilio di Nicea. Trovo l’immagine dell’icona davvero felice. Non si tratta infatti di un’immagine o un’espressione bensì di un’icona: chi scrive icone sa che ciò che lì traspare è solo il vago riflesso di una divinità inafferrabile e per certi versi indicibile. La stessa consapevolezza si ha leggendo il Simbolo di Nicea, in quanto nessuno dei suoi termini «può da solo esaurire la sovrabbondante pienezza della Rivelazione» (n. 17). Eppure è proprio questa la sfida che ci viene consegnata da Nicea: il coraggio di dire l’indicibile, colui che per primo ha voluto dirsi e farsi conoscere. La carne che il Figlio ha deciso di assumere ci autorizza e forse, anzi, ci interpella affinché noi stessi prendiamo sempre di nuovo la parola per dire la Parola. Perché la fede vive della Scrittura ma si sviluppa nella storia; c’è un eccesso, una sovrabbondanza (come dice il documento della Commissione) che chiede costantemente di essere ri-detta e fatta risuonare nell’oggi della chiesa. Il concilio di Nicea è stato il primo sforzo (seguito da molti altri) di mettere in atto (o meglio, in parola) questa dinamica, che è al cuore della fede proprio perché è quella che Dio stesso ha seguito per donarci la sua salvezza nel Figlio Gesù.

 

Una risposta a “Auguri Nicea!… ma perché?”

  1. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    Se la Parola è giunta fino a noi oggi, Essa ha eternato la Presenza di un Dio che si è manifestato all’uomo incarnandosi per tessere con lui un dialogo che lo vuole santo per l’eternita. Cristo, Figlio del Padre si è fatto Maestro, fratello, amico dell’uomo. Ha così insegnato e dato testimonianza e significato dell’amore del Padre verso ogni uomo, il farlo conoscere per essere il Dio Creatore della Vita che ha infusa in ogni cosa creata. A Lui dobbiamo la nostra immagine, e dal Figlio imparare come convertire la nostra natura umana a essere anche riflesso di quella divina.. Maria, e altro esempio di amore umano che ha dato vita a quello divino, madre di un figlio Figlio di Dio.il quale per amore l’ha donata a noi a diventare nostra madre . Ella da secoli si fa messaggera solerte in aiuto alla Chiesa nel cammino di Fede nel Figlio Gesù Cristo, luce di salvezza per il mondo.

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