Accompagnamento? No grazie!

Compagnia, affiancamento, accompagnamento: non sono termini equivalenti dal punto di vista teologico e pastorale, soprattutto in riferimento alla dignità e all'autonomia del mondo adulto
20 Settembre 2024

Qualche giorno fa mi è capitato di leggere un articolo dove Giuseppe Guglielmi usa un termine che mi sembra caduto un po’ in disuso nella teologia, nel magistero e in altri testi di provenienza ecclesiale: compagnia. Lo stesso giorno, leggendo le nuove linee guida del ministro dell’istruzione e del merito ho ritrovato un altro termine che, sia nel linguaggio giuridico-politico (di destra e sinistra) che in quello del magistero ecclesiale, sta prendendo invece il sopravvento: accompagnamento.

Ho già segnalato nel mio testo (Imparare dal vento, p. 156, 174) quanto sia problematica questa scelta (se di scelta di tratta), a causa del suo approccio paternalistico, e dove può creare equivoci nel cammino sinodale, non aiutandone la comprensione e l’andamento. Vorrei ora tornare sul perché di tale problematicità ed ambivalenza, e quindi sui motivi per cui riporterei questo termine nel posto che gli compete in base al suo significato ed utilizzo diffuso.

Non so se esistono studi storici in merito all’uso teologico-esegetico del termine, ma ricordo molto bene che nel periodo della mia formazione teologica (a cavallo del duemila) ritornava spesso nelle letture fatte l’espressione compagnia: «la compagnia della fede» (G.Ruggieri, 1980), «la teologia come compagnia» (B.Forte, 1987), «nella compagnia degli uomini» (E.Bianchi, 1995).Certo, ascoltavo e leggevo anche interventi polemici riguardo tale categoria: un po’ troppo di sinistra (politica ed ecclesiale) secondo alcuni, anche se ormai il muro era crollato e gli stessi uomini e donne “di sinistra” sempre di meno si chiamavano tra di loro compagni o compagne. D’altra parte, il termine compagnia, essendo presente nel romanzo Il Signore degli Anelli («la compagnia dell’anello»), era comunque caro anche alla destra (politica ed ecclesiale), che per ovvii motivi aveva più difficoltà ad usare ufficialmente il termine camerata.

In ogni caso, il termine compagnia è stato relegato in soffitta – forse perché troppo moderno e quindi forte, in un’epoca ormai post-moderna e quindi fluida se non debole – per essere sostituito, piano piano, dal termine accompagnamento. A questo processo ha contribuito, involontariamente, l’uso abituale del secondo termine nel cosiddetto accompagnamento spirituale, il quale, essendo caratteristico anche del mondo teologico gesuita, ha rafforzato ulteriormente tale cambiamento durante il pontificato di Francesco (nei cui testi magisteriali, infatti, il termine accompagnamento si ritrova spesso).

Nello stesso periodo – ma anche qui ci vorrebbe uno studio storico che approfondisca – il termine accompagnamento ha cominciato ad essere usato sempre di più nel linguaggio politico, ormai sostanzialmente liberista (a destra come a sinistra), in occasione di ogni riforma. Per implementare la riforma di turno, sono ormai sempre previste delle azioni di accompagnamento. Inizialmente, esse apparivano anche sensate (e tuttora lo sembrano per chi è esterno all’ambito riformato), ma con il passare del tempo si sono rivelate essere più delle modalità strategiche per “far passare” – se non “imporre” – riforme non condivise da chi le dovrebbe applicare e vivere quotidianamente. Senza volere entrare nel giudizio politico di questa o quella riforma, in tutti i casi l’uso del termine accompagnamento sembra sempre più riferirsi a soggetti che, se non “accompagnati”, non capirebbero o rifiuterebbero la riforma in atto.

Ora, non voglio scomodare i maestri del sospetto, ma mi sembra evidente che l’uso del termine è ormai decisamente equivoco. Da qui, la necessità di fare un po’ di “pulizia” linguistica, soprattutto perché il termine rischia di avvalorare visioni teologiche e atteggiamenti pastorali non proprio in linea, se non addirittura controproducenti per la Chiesa in uscita auspicata da Papa Francesco.

Nella lingua italiana, il termine è inequivocabilmente legato a situazioni di “minorità” (di solito da proteggere): indennità di accompagnamento, accompagnare i bambini, accompagnamento funebre, accompagnamento coattivo, accompagnamento in cabina (o voto assistito), accompagnare la porta (che dice sempre di un rapporto tra un soggetto intenzionale e un oggetto), un tempo si sarebbe detto anche accompagnare una donna a casa. Ferma l’intenzione (forse) positiva di questi accompagnamenti, siamo se va bene nel campo del paternalismo – e non certo in quello dell’aiuto o del servizio – che poco tiene in considerazione la dignità e l’autonomia giustamente rivendicata dal mondo adulto. Solo l’accompagnamento musicale o i piatti (e le lettere) di accompagnamento sembrano avere un senso diverso, ma è veramente troppo poco rispetto all’uso e al significato condiviso. Tra l’altro, non poche volte nelle discussioni intra-ecclesiali accompagnamento è un termine “difeso” da cristiani che hanno in mente proprio quella Chiesa docens il cui compito sarebbe quello di affermare la verità (spesso a discapito della carità) e che è legata ad un esercizio del potere e dell’autorità non sinodale (e che si vorrebbe superare).

Ecco perché preferirei che si tornasse all’uso dell’espressione compagnia, la quale, invece, non ha significati equivoci ed anzi evoca vicinanza, condivisione, giovialità, stare insieme (avendo ormai perso anche quel poco di connotazione militare che aveva in passato). Se però venisse fuori che il termine è ancora osteggiato per motivi ideologici, si potrebbe “ripiegare” sulla parola affiancamento. Mettersi a fianco, camminare fianco a fianco, è precisamente ciò che compie Gesù in Luca 24 nei confronti dei discepoli di Emmaus. Qui, come nella lingua italiana, il termine evoca sostegno, o meglio aiuto paritario (ricordiamo Eva dal “fianco” di Adam) e in ogni caso sempre e solo temporaneo: i miei studenti e le mie studentesse che prestano servizio alla scuola di italiano per migranti “Penny Wirton”, dopo l’incontro di formazione, cominciano ad insegnare in affiancamento, per poi proseguire in modo autonomo, degno di quell’adulto che si preparano ad essere.

Spero quindi, con questa riflessione, di aver offerto un piccolo contributo alla segnalazione di un problema che non è solo terminologico. Nel discorso di maggio alla CEI, l’arcivescovo Castellucci ha usato l’espressione affiancamento nei momenti secondo me “giusti” (ossia parlando del rapporto tra Chiesa in missione e mondo adulto o giovanile), mentre ha riservato la parola accompagnamento alle relazioni effettivamente asimmetriche (vescovi-cammino sinodale, genitori-bambini, Maria-fedeli). È vero che nel comunicato finale dell’assemblea CEI di maggio si parla sempre e solo di accompagnamento. Ma è altrettanto vero che il vicepresidente della CEI è anche il presidente del comitato del cammino sinodale italiano e membro di nomina pontificia del Sinodo dei Vescovi sulla sinodalità. Non so se possiamo dormire sonni tranquilli, ma sperare sì…

Una risposta a “Accompagnamento? No grazie!”

  1. Pietro Buttiglione ha detto:

    Sono contento.
    Cose che scrivevo molte lune fa ,,,👍👍👍🤢😍😃

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

I commenti devono essere compresi tra i 60 e i 1000 caratteri. I commenti sono sottoposti a moderazione da parte della redazione che si riserva la facoltà di non pubblicare o rimuovere commenti che utilizzano un linguaggio offensivo, denigratorio o che sono assimilabili a SPAM.

Ho letto la privacy policy e accetto il trattamento dei miei dati personali (GDPR n. 679/2016)