La ferita come luogo teologico della rivelazione di Dio e come essenza dell’umanità: è questo il nucleo incandescente, umanissimo ed evangelico, di Tocca le ferite. Per una spiritualità della non-indifferenza, del teologo e filosofo ceco Tomáš Halík, edito da Vita e Pensiero. Il testo è in realtà stato scritto nel 2008, ma ora è reso disponibile a un pubblico italiano dalla casa editrice dell’Università Cattolica, che continua così, con grande merito, la diffusione del pensiero di uno dei più brillanti intelletti cristiani del nostro tempo.
L’icona evangelica che guida la riflessione ˗ potente e profonda, come sempre in Halík – è quella dell’incontro tra Tommaso e il Risorto, laddove, secondo l’evangelista Giovanni, il Cristo si presenta al discepolo dubitante mostrando le ferite che per sempre recherà con sé e facendo così, di ogni ferita della storia, il luogo in cui è concesso di toccare Dio: in tal modo, secondo il modello dell’Incarnazione, «tutte le ferite dolorose, tutte le miserie del mondo e dell’umanità sono ferite di Cristo» (p. 18), in quanto «il mio Dio è un Dio ferito» (p. 15).
Alla base di questa intuizione teologica soggiace un episodio biografico, il cui racconto apre il volume: un giorno, dopo aver celebrato la Messa nella cattedrale di Madras – sopra quella che la tradizione identifica come la tomba di Tommaso – ed aver letto la pericope giovannea, l’autore entra in contatto, spiazzante e sconvolgente, con la miseria e la sofferenza di un orfanotrofio. Da qui, immediatamente, una nuova lettura del brano evangelico: è nella ferita dell’umanità che il Cristo si rende presente, secondo la sua stessa parola: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani: stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo, ma credente!», sentendo così la forza della promessa del Figlio: «dove tocchi la sofferenza dell’uomo – e forse solo lì – riconoscerai che Io sono vivo, che Io sono. Mi incontrerai dovunque l’uomo soffra. Non scostarti da me in nessuno di questi incontri. Non avere paura!».
Da qui, da questa sorgente, Halík snoda le sue riflessioni, che insistono su tre grandi pilastri. Il primo riguarda, come in altri suoi pregevoli volumi, il tema del Mistero di Dio, sul quale e del quale l’uomo non può che balbettare, tacere, interrogarsi, finanche arrivando a lottare. Sono motivi ricorrenti nella visione del teologo, che riesce proprio su queste basi a gettare un ponte con il mondo moderno, di cui egli si sente parte integrante, andando anche a eleggere Nietzsche come uno dei maestri prediletti, poiché sempre capace, il pensiero del filosofo, di provocare, pungolare, rendere impossibile l’assuefazione a formule e riti che poco hanno a che vedere con una fede vera, sincera, incarnata. Una fede sempre in cammino, mai doma e mai arrogante, umile nel dichiarare di non ‘possedere la verità’ con trionfalismo, ma capace sempre di interrogarsi, di ‘convertirsi’. Non sono certo ipocrite le pagine del libro, che smuovono, domandano, turbano nella loro limpida verità: «A uno sguardo attento sulla storia, non possiamo sottrarci al sospetto che per milioni di brave persone che hanno confessato e praticato (per la maggioranza di certo in mondo sincero e non ipocrita) la religione cristiana, la quiete di questa religione, di questo sistema di regole sperimentate, di rituali e usi, non è mai stata turbata dal nascere di una fede come libera risposta personale a una chiamata di Dio personalmente sentita» (p. 68).
Il secondo pilastro del volume si incentra sul mistero della croce, per cui Gesù assume «non solo la morte umana, ma anche la morte di Dio» (p. 43), nella immensa solidarietà del divino con l’umano, nell’abisso dell’abbandono e della sconfitta – poi redenta e risorta, ma pur sempre sconfitta – nel suo primo manifestarsi. Va da sé che da qui deriva, anche per l’uomo, il mistero della croce, della sofferenza, del male, che conduce al terzo pilastro della riflessione di Halík, che allarga l’orizzonte verso la pena del mondo, dove batte il cuore delle pagine del teologo: «In questo libro il lettore non trova, e forse neanche cerca, istruzioni per curare la ferite del nostro mondo: ho sempre nutrito e nutro tuttora un’estrema sfiducia nei confronti dei ricettari. Se queste riflessioni vogliono essere di aiuto per qualcuno, è piuttosto perché sollecitano alla ‘non-indifferenza’, al coraggio di vedere» (p. 83). Si comprende così da dove nasce il sottotitolo del libro, che muove dunque verso il riconoscimento della verità dell’altro, ma anche delle ferite del proprio essere, poiché non si dà essere umano senza ferita. Anche la fede, una fede vera, dice Halík, non può che essere ferita: dalla sofferenza propria e altrui, dal dubbio, dalla morte. Siamo così spinti verso i «lazzaretti del mondo», là dove Cristo risiede: essi generano (per chi sa vedere) la conversione dell’osservatore, per poi giungere, in qualche modo, alla fede, alla speranza, alla carità, all’abbandono (con pagine di grande finezza sulla morte), alla preghiera di intercessione. Per arrivare a farsi prossimo, per vie che non sono semplici atti di generosità, ma azioni di dedizione, di amore vero e di testimonianza della fede nel Risorto ferito.
Tocca la ferite è un libro da leggere e rileggere, meditare, un libro su cui sostare con calma e profondità; è un libro che ben si accompagna agli altri di Halík tradotti in italiano, come Voglio che tu sia, Pazienza con Dio, La notte del confessore: testi di penetrante attualità, sebbene la loro stesura abbia ormai varcato la decina di anni. Sono testi intelligenti, ossia in grado di leggere dentro il nostro tempo, dentro il nostro animo, dentro il sensus fidei dei credenti.
Basti una pagina, per gettare luce su un pensiero a cui attingere, con fecondità:
«La fede, se è viva, verrà sempre ferita, posta in croce e, sì, a volte anche ‘uccisa’. Ci sono momenti in cui la nostra fede (o, detto più umilmente, il suo attuale aspetto) muore – per poter di nuovo risorgere. Sì, soltanto una fede ferita, in cui sono evidenti i ‘segni dei chiodi’, è affidabile; essa soltanto può curare. Temo che una fede che non abbia passato la notte della croce e non sia stata colpita al cuore non abbia questo potere.
Una fede che non è mai stata cieca, che non ha mai provato l’oscurità, difficilmente può aiutare quelli che non hanno visto e non vedono. La religione dei ‘vedenti’, una religione farisaica, peccaminosamente sicura di sé, incolume, offre pietre al posto del pane, ideologia al posto della fede, teoria al posto di testimonianza, istruzioni al posto di aiuto, ordini e divieti al posto della misericordia dell’amore» (pp. 179-180).
Di questi affondi, di questi squarci, è ricco il libro, che si fa compagno di viaggio soprattutto in un tempo che, sappiamo, vive nelle sue ferite ogni volta suturate e ogni volta ancora pulsanti. Come è la vita di ogni uomo e donna, da sempre.
La quiete di questa religione non è mai stata turbata dal nascere di una fede libera risposta…dice il teologo, ma da come una persona semplice ha visto rileva invece che anche da quello stato può accadere che dalla prova di sofferenza sia la Fede inconsapevolmente latente, a diventare forza vitale che si rivolge alla Divinità, alla sorgente della vita e ne fa vincastro, si sorregge ad esso è supera ostacoli, è artefice di una Presenza invisibile che si fa tale anche per altri. Non basta la giaculatoria, è vero, ma è una via che è data alla libertà di scelta quando avviene di incontrare un ostacolo, un problema, si tratta come oggi per il Covid, di vita o di morte, la conoscenza è importante, per questo Cristo ha “mandato i suoi” e sono arrivati in tutto il pianeta, anche se appare che ancora oggi vengano crocifissi. “Beati quelli che credono senza aver visto” si, ha detto bene Lui, pur vedendo si può passare oltre ma per andare dove?
Questa sera anche il parroco alla Messa di Natale, chiesa piena alle 18 di tutte le età a fatto ha invitato due bambini a togliere il “velo” che nascondeva il bambinello, con riflessioni come” a volte Egli non si vede, nascosto da un velo di indifferenza, di lontananza, di vita volta Ad altri interessi” pregare quindi Lui il sto povero per essere più vicino a questa umanità errante, in cerca di speranza che siamo noi, che ci tolga questo velo perché lo possiamo vedere, vedere l’amore, perché questo è Lui. Sembra facile se ci fermiamo alla commozione del “appena nato” ma invece se sia oltre, significa un dare di se a un prossimo che non sempre ci ispira a buoni sentimenti, che appare faticoso, o insignificante, che crea problemi gravosi se occuparci di tutti e tanti altri aspetti nelle persone vicine o lontane negli ambiti in cui viviamo . Il Covid è un virus che alberga anche nel cuore e se aggredisce la persona occorre vaccinarsi con l’amore di quel Bambino celeste