Disuguaglianza, alcune cose che so di te (II)

Solo il recupero della tutela e valorizzazione del lavoro, e il riallineamento dei redditi da lavoro alla produttività potranno consentire un progresso stabile, sostenibile e «umanamente ecologico».
29 Marzo 2016

Nel post precedente abbiamo ripercorso i fondamenti biblico-teologici del magistero ecclesiale in rapporto alla destinazione universale dei beni, prendendo al contempo atto dei dati preoccupanti sulla sperequazione crescente nella distribuzione delle ricchezze.

Ma la disuguaglianza economica interna ai paesi è davvero così negativa sotto il profilo delle dinamiche economiche? Già il secondo teorema dell’economia del benessere pone in evidenza come l’allocazione efficiente delle risorse non necessariamente corrisponda a una distribuzione equa e socialmente preferibile delle stesse. Negli ultimi anni si sono occupati di questo problema alcuni tra i maggiori economisti (es. Stiglitz, 2014); la stessa OCSE in successivi studi ha posto in evidenza l’aumento della disuguaglianza interna agli stati negli ultimi decenni, quale fattore incoerente con la crescita stabile e socio-economicamente sostenibile nel lungo periodo.

Tra indice di diseguaglianza econimica (Gini) e indice di sviluppo umano e sociale esiste una correlazione negativa statisticamente rilevante, confermata in modo evidente dai dati empirici (Bagnai).

Dati empirici incontrovertibili dimostrano che persino le democrazie più importanti del pianeta hanno visto crescere al proprio interno diseguaglianze sempre maggiori – con una contestuale decrescita della mobilità sociale – cause di marginalità e precarietà delle condizioni di vita, quando non di vero e proprio impoverimento, di ampie fasce della popolazione (es. USA, Germania). Ciò indipendentemente dal colore e dall’orientamento politico dei governi che si sono succeduti. La deregolamentazione della finanza e la conseguente finanziarizzazione dell’economia hanno condotto col tempo alla decisa compressione della quota salari rispetto alla quota profitti di capitale, all’acuirsi della polarizzazione nella distribuzione delle risorse e al progressivo spostamento verso economie ove il consumo delle famiglie e degli individui si basa sempre più sull’indebitamento privato anziché sui redditi da lavoro (rimasti per lo più stabili o cresciuti solo debolmente in termini reali, nonostante l’aumento della produttività). Le economie, si noti, si sono caratterizzate in questo senso soprattutto nei decenni che hanno condotto alle maggiori crisi mondiali dell’ultimo secolo (1929 e 2007); gli anni del secondo dopoguerra hanno invece seguito un diverso paradigma, sino ai primi anni ’80 (quando le disuguaglianze hanno ricominciato a crescere).

Il visionario Dr. Michael Burry, tra i primi ad accorgersi degli squilibri in atto sul mercato immobiliare e a presagire il crollo dei mutui subprime al momento del passaggio dal tasso fisso all’indicizzazione variabile (secondo trimestre 2007), nel film “La grande scommessa” di Adam McKay esclama: “Il valore degli immobili continua a crescere, mentre i salari reali rimangono fermi: ciò significa che questi beni non sono assets, ma ‘debito’!”.

Le grandi crisi sono state causate precisamente dalla crescita delle disuguaglianze economiche e dall’eccessivo indebitamento privato, che ha portato all’esplosione di ‘bolle’ finanziarie, trasmesse poi all’economia reale e ai debiti sovrani (diminuzione del reddito, recessione, crollo delle entrate fiscali e conseguente innalzamento del deficit pubblico e del rapporto debito/PIL). Ciò ha rafforzato la marginalizzazione del lavoro (compreso, giova ricordarlo, il lavoro artigianale e della piccola-media imprenditoria) – privato di tutele e rappresentanza – e il progressivo smantellamento dello stato sociale, dei servizi ai cittadini (sanità, istruzione – soprattutto in Italia, previdenza pensionistica), degli investimenti pubblici e privati.

Si è assistito altresì all’utilizzo massiccio del dumping sociale tra le stesse economie avanzate, al fine di favorire le esportazioni nazionali. La concorrenza è avvenuta sempre meno sulla qualità – il recente caso Volkswagen insegna qualcosa – e sempre più sui prezzi, attraverso il contenimento dei costi dei ‘fattori produttivi’: anzitutto il lavoro e gli standard ecologici. Tutto questo, come sempre avviene quando si opera in regime di cambi fissi (o di unione monetaria: es. eurozona), ha condotto a ulteriori gravi scompensi e polarizzazione delle risorse. Il rapporto tra paesi in strutturale surplus commerciale – come la Germania – e le altre economie dell’unione manca infatti, in questo caso, del necessario fattore di riequilibrio delle partite correnti (saldo con l’estero), che consiste normalmente nell’aggiustamento del cambio tra le valute nazionali (secondo le dinamiche di domanda e offerta di mercato delle rispettive monete). Se a ciò si aggiunge che lo stesso paese strutturalmente in surplus quanto a saldo con l’estero ha operato “riforme strutturali” (promosse sia da governi ‘socialdemocratici’, che conservatori) che hanno avuto l’effetto di precarizzare e marginalizzare economicamente intere fasce della popolazione interna (fenomeno dei cd. mini-jobs, parzialmente temperato dal sistema tedesco di protezione sociale e di reddito minimo, sconosciuto nei paesi periferici come la Grecia e l’Italia), si comprende quanto più incisive e dolorose nella carne dei settori sociali più deboli dei paesi periferici abbiano dovuto essere le “riforme” dettate dall’agenda dell’austerity. Le conseguenze sono state negative per la crescita degli uni e degli altri, a motivo della spirale deflazionistica intrinseca alla radicale debolezza e stagnazione della domanda interna.

Sin qui i problemi e il grido del magistero del Papa: “Perché vi sia una libertà economica della quale tutti effettivamente beneficino, a volte può essere necessario porre limiti a coloro che detengono più grandi risorse e potere finanziario. La semplice proclamazione della libertà economica, quando però le condizioni reali impediscono che molti possano accedervi realmente, e quando si riduce l’accesso al lavoro, diventa un discorso contraddittorio che disonora la politica […] Si richiede dalla politica una maggiore attenzione per prevenire e risolvere le cause che possono dare origine a nuovi conflitti. Ma il potere collegato con la finanza è quello che più resiste a tale sforzo, e i disegni politici spesso non hanno ampiezza di vedute. Perché si vuole mantenere oggi un potere che sarà ricordato per la sua incapacità di intervenire quando era urgente e necessario farlo?” (LS, 129.57). Una corretta analisi è presupposto necessario perché l’intervento sia efficace, non demagogico e autenticamente rivolto al bene comune. Correggere gli squilibri attraverso la progressività della tassazione è possibile, ma solo parzialmente (es. Duncan-Sabirianova Peter, 2008): solo il recupero della tutela e valorizzazione del lavoro, la creazione di condizioni di piena e stabile occupazione (è ormai provato che precarietà e produttività sono negativamente correlate, così come che la produttività dipende inversamente dal livello della domanda aggregata) e il riallineamento dei redditi da lavoro alla produttività potranno consentire un progresso stabile, sostenibile e “umanamente ecologico”.

Sono necessarie soprattutto “misure che riducano l’enorme potere politico delle lobby. Come è possibile infatti che in Paesi prevalentemente democratici i 3,6 miliardi più poveri non vincano le elezioni contro i 62 più ricchi? Il pericolo maggiore è che i super-ricchi abbiano talmente tanti soldi da poter orientare cultura e politica in modo tale da convincerci che questo stato di cose è il migliore dei mondi possibili” (Becchetti). Si tratta delle dinamiche di controllo dell’opinione pubblica bene approfondite da Noam Chomsky: secondo il noto problem-reaction-solution paradigm, sono sovente gli stessi poteri economici che hanno creato i problemi a manovrare gli strumenti convincenti – attraverso i mezzi di informazione di massa e la politica asservita – al fine di offrire una soluzione …vantaggiosa solo per se stessi!

 

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