Se a Sanremo spunta una benedizione

Grazie a Fiorella Mannoia per aver scelto di sfoggiare sul palco dell'Ariston una parola ignota ai ragazzi di oggi. E che invece ha ancora molto da dire a tutti
9 Febbraio 2017

Un grazie speciale a Fiorella Mannoia, in queste sere di Sanremo, certo per la sua meravigliosa voce ma anche per una parola dimenticata che ha deciso di sfoggiare nel testo della canzone che ha proposto, con lo stesso coraggio, a mio avviso, con cui uno si presenterebbe sul celebre palco dell’Ariston con un sobrio vestitino demodè… Sì, perché al di là della canzone che può piacere o meno (e che comunque a me personalmente piace molto, apprezzando sempre tanto questa cantante), trovo coraggiosa l’idea di benedire la vita con tanta evidente energia e addirittura, nel titolo del brano, proporre quell’aggettivo “benedetto”, che ha attirato subito la mia attenzione. E’ una forma di coraggio che sfida certamente lo share televisivo nel proporre una categoria verbale, e anche di significato, come quella della “benedizione”, concetto decisamente superato e termine che, probabilmente, la maggior parte dei nostri adolescenti non ha mai usato nemmeno una volta in vita sua.

Certamente, come tutti sappiamo, esistono tante parole che escono di moda, proprio perché si svuotano di luoghi, tempi e contorni che le sorreggevano. In questo specifico caso rimangono a malapena, come esperienze quotidiane, le “benedizioni” pasquali in primavera fatte dal prete o dal diacono della propria parrocchia, o la “benedizione” finale della messa quando si frequentava la chiesa assieme all’ora di catechismo. Non è assolutamente più bagaglio culturale dei giovani pensare che si debba avere la benedizione del proprio padre per frequentare una ragazza o un ragazzo, e alla fine, anche decidere di sposarsi con quella stessa benedizione concessa. Come pure il padre, come invece accadeva nei tempi passati, oggi normalmente non benedice più la mensa casalinga o le scelte importanti di un figlio, da un acquisto significativo alla partenza per un viaggio…

Insomma ai figli sembra non essere più necessario quel viatico paterno che segnava una partenza, scandiva un ritmo, “diceva bene” su quanto quel ragazzo stava facendo, pensando o cercava di intraprendere! E così, lentamente senza accorgerci di questo, abbiamo perso come società quel gusto bello di sentirci spinti nella vita con amore, incoraggiati da quella forza che la benedizione intrinsecamente conteneva, liberati e inviati all’esterno sentendosi individui dall’identità formata e autonoma rispetto alle proprie origini. Non così pare per la parola contraria: infatti la parola “maledizione” (e insieme il suo aggettivo derivato) sembra essere rimasta in voga anche tra le generazioni più giovani per il suo potere trasgressivo e ” ludico” da videogame, film horror o romanzo fantasy….

Così se si va in cerca di un “tempio maledetto” in qualche videogioco già a sei anni, avendo la possibilità di imparare quel termine, non c’è più niente che invece si chiami benedetto tra quello che più comunemente si usa oggi, nel frasario comune delle fasce più o meno giovani della popolazione. Ma, in fondo, a cosa serviva la benedizione a livello antropologico, prima ancora che religioso? A mio avviso, era funzionale soprattutto a far crescere “liberando”, confermando e slegando l’individuo da catene di legami eccessivi con le proprie origini.

Non volendo certo entrare, in questa sede, nel ricco spessore di questo valore cristiano sia in ambito teologico che liturgico, richiamo solo la grande ricchezza umana che questo atto, fatto di parole e gesti, spesso rappresentava. E per farlo, da francescana, mi riallaccio alla straordinaria esperienza di vita dello stesso Francesco di Assisi che con lo splendido concetto di benedizione ha dovuto fare i conti, più o meno faticosamente, durante tutta la sua stessa vita. Infatti non si può tentare di comprendere, almeno in parte, il valore del ricevere e del dare una benedizione per Francesco, se non si guarda il suo stesso rapporto col padre, Pietro di Bernardone. Inizialmente, infatti, il suo orgoglioso sogno iniziale di diventare cavaliere, con tanto di armatura e corazza, coronando il sogno di ogni rampollo borghese del suo tempo, doveva certamente aver avuto la benedizione compiaciuta del ricco e ambizioso mercante di stoffe Pietro.

Ma certamente, al ritorno con la coda tra le gambe, dopo la sconfitta da parte dei Perugini ( e la successiva prigionia) e il tentativo fallito di partire per le Puglie in una nuova impresa, quel Pietro di Bernardone non aveva trovato molto da benedire osservando gli strani segnali del figlio, caduto in quella terribile malattia dell’anima che lo avrebbe condotto alla conversione definitiva e alla spogliazione di tutti di vestiti paterni in piazza davanti al Vescovo di Assisi. In quel percorso, a più riprese, il padre sconcertato aveva cominciato a maledire e malmenare quel figlio che ai suoi occhi pareva impazzito e ingrato… Così Francesco, come ci racconta il biografo Antonio da Celano nella sua Vita Seconda, chiaramente appesantito dal comportamento del padre cercò “un uomo di umile condizione e semplice assai, e lo pregò che, facendo le veci del padre, quando questi moltiplicava le sue maledizioni, egli di rimando lo benedicesse”.

Teneressima questa richiesta di Francesco, e forse non ce la aspetteremmo nemmeno da un uomo che per tutta la vita brama il distacco da affetti e legami terreni di ogni tipo, eppure la benedizione è un tipo di legame che cerca l’origine, ma per staccarsene bene e aver la forza di iniziare il proprio percorso. Solo così infatti, riconciliandosi con “l’esigenza di confrontarsi con la ferita più profonda della sua vita: il suo rapporto con Pietro di Bernardone” (G. Salonia), egli scopre la potenza della benedizione, fondamentale e unica, del Padre che è nei Cieli, non secondo un percorso solo spirituale e avulso dalla propria verità di uomo, ma nella personale fatica di una carne spesso molto ferita. “Francesco si era riconciliato con la figura paterna scegliendo il Padre Celeste; aveva accolto i seguaci come dono di Dio e li aveva chiamati “fratelli” (e non “figli”).” (G. Salonia) E in quest’ottica inizierà a benedire i suoi frati anche lui, prima di tutto per sostenerli come uomini, nella loro fragilità, e poi nella loro fede come credenti che vogliono aderire alla verità di un Vangelo non sempre facile.

In molte sue Lettere, poi, benedirà coloro a cui si rivolge o invocherà su di loro la benedizione di Dio stesso, mentre in altri Scritti, come ad esempio nei due Testamenti, sceglierà la benedizione come chiusa o come apertura di sostanza, non certo come soluzione retorica di stile. Un esempio per tutti del valore umano della benedizione nei suoi Scritti lo troviamo infatti in quella Lettera a Frate Leone, dove Francesco assiste come una madre, dolcemente, il suo amico probabilmente afflitto da un serio problema di coscienza. E qui lo invita a star tranquillo, a sentirsi moralmente degno e sicuro di sé, a sentirsi benedetto nel considerare autonomamente ciò che è bene e ciò che è male, ma a considerarsi anche libero, nel caso avesse ancor bisogno di lui, di tornare a chiedergli ogni volta consiglio. Ecco quel che fa la benedizione, ecco il suo miracolo che Francesco ben evidenzia: slega, rende individui non fusi con la propria radice, ma anche conferma nel bene e apre a un contatto successivo, se ce ne sarà bisogno, come in un passaggio di porte scorrevoli dove è possibile entrare e uscire a discrezione di chi le attraversa…

 

Canta la Mannoia, donna “laica” del nostro tempo:

 

Per quanto assurda e complessa ci sembri, la vita è perfetta,

per quanto sembri incoerente e testarda, se cadi ti aspetta.

E siamo noi che dovremmo imparare a tenercela stretta,

a tenercela stretta,

che sia benedetta.

 

Scrive San Francesco d’Assisi, uomo “religioso”del Duecento:

 

…fatelo con la benedizione di Dio e la mia obbedienza.

E se credi necessario per il bene della tua anima,

o per averne conforto, venire da me,

e lo vuoi, o Leone, vieni.

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