Nell’anno che ricorda l’anniversario del Concilio di Nicea sono usciti non pochi testi che ricordano quel fondativo evento ecclesiale — la prima assemblea ecumenica —, spesso, però, scegliendo la strada della spiegazione: cosa significano gli articoli Credo niceno, che ha dato forma alla fede di generazioni, per molti secoli? Un secondo ordine di libri approfondisce, invece, il contesto storico-teologico entro cui maturò la scelta di redigere il Credo, su spinta e sostegno dell’Imperatore Costantino.
Tra questi due approcci, in posizione mediana, ma, al tempo stesso, con alcuni interessanti sguardi in avanti, si muove il volume di Antonio Ballarò, La forma del credo. La redazione del simbolo cristiano (Bologna, EDB, 2025, 18 pagine, €16, prefazione di Stella Morra), un libro agile che permette di avere un quadro sintetico di cosa si mosse dietro, attorno, prima, ma anche dopo Nicea, per coglierne il senso tanto in relazione al contesto coevo (si pensi, in primis, alla vicenda di Ario), quanto al nostro contesto contemporaneo.
Per questo il giovane autore affianca sempre al patrimonio della tradizione una lettura costante dell’oggi, così da mettere a fuoco la fecondità e i nodi che dal Credo del IV secolo possono giungere a noi, a partire dal tema della ricezione, da intendersi sempre come ricezione attiva: «Ricevere il Credo significa ricevere una fede e una storia, ma anche un’interpretazione e una rielaborazione di entrambe, e unitamente a questo — o meglio, proprio in tutto questo — la concretezza di un annuncio che costituisce una visione del mondo. L’esperienza delineata e la tradizione strutturata nel Credo non intervengono come restrizione del pensare o dell’agire ecclesiale, ma per configurare l’ecclesiale stesso» (p. 40). In sostanza, ciò che è formula, ed è stata pensata come tale, ha una storia e una preistoria, in relazione con il dato scritturale e con la comprensione stessa della rivelazione, comprensione che, come è noto, è stata assai complessa e lunga (e mai chiusa).
Ballarò ricorda, ad esempio, che esistevano dalle origini dell’evento cristiano più formule di fede, spesso impiegate per uso liturgico durante il rito del Battesimo, così come esistevano più chiese, dove il plurale indica la ricchezza e la varietà dell’esperienza e del dire la fede nel Cristo risorto (e Stella Morra, nella prefazione, parla opportunamente di «plurale inclusività»).
Dunque, dopo avere delineato i movimenti storico-politici che intersecano le vicende ecclesiali e teologiche dei primi secoli cristiani, e dopo aver ricordato la ‘fase della controversia’, nata anche per chiarire gli elementi basilari della rivelazione tra diverse posizioni di pensiero, Ballarò sosta brevemente sugli articoli di fede, rileggendoli sullo sfondo del contesto, per poi interrogarsi sul sempre vivo rapporto tra fede, tradizione, singolo credente e chiesa: «il Credo non può nascere se non in un intreccio di esperienze e tradizioni già esistente; […] esso inaugura un nuovo filone della tradizione dell’esperienza ecclesiale» (p. 85), in una dialettica mai risolta (e mai risolvibile) tra io e noi, tra chiesa e persona, dove uno degli elementi si dà sempre in relazione con l’altro, e mai in assenza.
Allora il Credo è figlio del suo tempo, poiché «l’oggetto Credo è anche un prodotto culturale e sociale» (così come ogni spiritualità è sempre storica, come insegnava Michel De Certeau), frutto pertanto di una tradizione che al tempo stesso la professione di fede rilancia e configura, insieme proponendo la fede a cui poter aderire: e ciò vale sia per l’uomo e la donna credenti, sia per la chiesa che a quel credo aderisce, avendone, ugualmente, anche dato forma. È, quindi, una continua circolazione di elementi, la cui natura non è radicata nella chiusura, ma nell’apertura, nello sguardo in avanti.
Pertanto, oggi, cosa significa professare il Credo (nella sua declinazione non solo nicena, ma anche costantinopolitana)? Nel XXI secolo — che Ballarò tratteggia in alcuni fenomeni evidenti quali il «presentismo», l’ipersoggettivismo, l’individualismo — cosa può dire il dire del Credo?
È un minimo a cui prestare fede, un minimo che unisce e che, al tempo stesso, allarga e schiude, tenendo sempre presente che deve, però, esserci un radicamento nelle forme del pensare e del vivere in questo momento storico: la tradizione è sempre viva e, per questo, ogni approccio leale e fertile non può non essere anche un poco storicistico, in quel continuo e indispensabile movimento tra ieri, oggi e domani.
Da qui Ballarò deriva (e sono pagine ricche di spunti) che non si può professare una fede senza un interrogarsi sulla realtà del male, che sembra proprio negare ciò che costituisce il Credo nel Dio incarnato: «Ciò che il Credo può proporre al riguardo è solo una fede, un’opzione contraria alle potenze che opprimono e uccidono, una radicale rinuncia al male come logica intrinseca dell’esistere perché al sui posto prevalga la “vita del mondo che verrà”» (p. 109). Farsi penetrare da ciò che la fede cristiana, nei suoi nuclei essenziali, recita e invita a ritenere affidabile serve per trasformare un elenco di articoli in un’esperienza di vissuto, dove «credere somiglia sempre più al rimanere» (p. 112).
Qui si colloca un’intuizioni di Ballarò che appare come foriera di ulteriori sviluppi, ossia il concetto di «teologia della restanza», mutuando dal sociologo Vito Teti l’enunciato, per cui nel frangente in cui siamo si moltiplicano le tensioni, non solo a livello del singolo, che potrebbero condurre all’abbandono della fede e dell’appartenenza ecclesiale; allora dare il proprio assenso ragionato e libero al Credo significa, semplicemente, restare — con sentimenti diversi, di bene e di delusione, di speranza e di smarrimento —, ma pur sempre restare: è, questo, ciò che fa ritenere il Vangelo una proposta di vita buona per l’oggi, nell’apertura sull’eterno, in un cammino condiviso.
E leggendo le pagine finali in cui l’autore pennelleggia per schizzi la «teologia della restanza» mi sovvenivano le indimenticabili parole di Carlo Carretto: «Quanto sei contestabile, Chiesa, eppure quanto ti amo! Quanto mi hai fatto soffrire, eppure quanto a te devo! Vorrei vederti distrutta, eppure ho bisogno della tua presenza. Mi hai dato tanti scandali, eppure mi hai fatto capire la santità! Nulla ho visto nel mondo di più oscurantista, più compromesso, più falso, e nulla ho toccato di più puro, di più generoso, di più bello».
Lasciamo perdere il teologichese clericale, siamo schietti. Chi recita il credo oggi esprime la sua adesione a un Dio proiezione di una cultura gerarchica che mette l’onnipotenza di Dio al sommo di tutte le potenze conosciute a cui bisogna sottostare. Non è il Dio che Gesù ci ha fatto conoscere: Padre misericordioso che ci invita a vivere la sua stessa misericordia con tutte le sue implicazioni ecc. ecc. Il credo che recitiamo è un credo dottrinario astruso che non ci propone un vissuto evangelico da praticare. Non trovo nulla che ci aiuta ad essere discepoli di Gesù. Questo detto brutalmente.
Sono d’accordo con lei: ho l’impressione che la stragrande maggioranza dei credenti che vanno in chiesa la domenica semplicemente lo “recitano”, come una specie di mantra o molto più banalmente, perché “va recitato” altrimenti non sei un “vero cattolico”. Oggi, secondo me, andrebbe rivisto, anche nella sua forma letterale, attualizzandolo secondo i progressi della ricerca teologica e culturale. Solo una provocazione, che mi fu fatta un paio di anni fa da un prete: perché invece di questa formula piuttosto filosofica e un po’ astrusa, non utilizzare, come simbolo, il Prologo del vangelo di Giovanni? Credo sarebbe più aderente alla Buona Notizia e molto più concreto.
E se si proferisse con le medesime formule un “Non Credo ? “ Perché anche questa è realtà che è vissuta da molti, e questa affermazione in negativo assume valore, avvalora quella formula di Credo che la Chiesa ritiene far pronunciare durante la Messa proprio in quanto ci rivolgiamo a Cristo, siamo presenti come quelle sue folle ad ascoltare la Sua Parola, siamo lì perché Egli ci offre quel suo pane, e ci fa bere del suo calice, e tutto questo è Verità se crediamo in Lui , Persona vivente nell’oggi. E’ da consapevoli di ciò che già conosciamo, che ci si impegna dare testimonianza. Si può anche pensare come a un dare risposta a quella domanda che Cristo ha rivolto a Pietro” Simone figlio di Giovanni, mi vuoi bene? Il Credo, una consenziente risposta a Lui dal fedele credente . Solo personali considerazioni
Interessante, suggestivo. Però il contesto liturgico (e le modalità pastorali e catechetiche) con cui il Credo viene tuttora presentato, inducono a darne un’interpretazione strettamente letterale e non storica (tanto meno evolutiva!). Tipo carta d’identità: sei cattolico se e solo se credi questo, sennò sei fuori.
E’ una professione di Fede della Chiesa, strettamente sintetica, che solo un fedele e a conoscenza del suo significato pronuncia, per una fede che si intende vivere, operare nel quotidiano per il fine che promette raggiungere. Non è una formula che si può pronunciare senza una educazione e una libertà di adesione al credere, pertanto ogni proposta di approfondimento per coloro che sono nuovi alla Tradizione, può tornare utile anche la lettura che approfondisca in ogni sua affermazione il significato in aiuto a un metterlo in pratica, vissuto nel quotidiano. Verità di fede che impegna il credente a scoprirne a sua volta il significato e a far maturare una propria conversione