«Può una canzone dare forma a un pensiero?». La domanda, così posta, può dire troppo o troppo poco, per certi versi può anche suonare provocatoria. Una sola canzone, in effetti, è forse troppo “debole” per portare il peso e la responsabilità di tutto un pensiero, intendendo con ciò una riflessione di ampio respiro, uno sguardo sul mondo, un modo di vedere le cose. Non si rischierebbe di offrire un discorso per lo meno banale?
A dire il vero, la questione di qualche tempo fa circa la decisione, o meno, da parte di alcuni professionisti di cantare Bella ciao, sembra suggerire una risposta diversa alla nostra domanda. Non è questo, tuttavia, il dibattito al quale si vuole rimandare. Vorremmo offrire, piuttosto, in poche battute, uno spunto “teorico” per iniziare a sondare e interrogare l’effettiva possibilità, che sarà poi da sviluppare concretamente, di costruire una riflessione teologica in dialogo con il mondo della musica.
L’intento così formulato non si prefigge lo scopo di ascoltare, leggere e interpretare brani musicali strettamente religiosi, come quelli che è possibile eseguire o recitare durante le celebrazioni liturgiche o quelli che in sé presentano un chiaro contenuto religioso (pensiamo ad esempio agli Oratori di Händel, ai Corali di Bach ecc.). Questo repertorio, certamente, sarebbe un comodo e sicuro campo d’azione in cui muoversi per cercare di fare teologia “in chiave musicale”. Allo stesso tempo, tuttavia, sarebbe molto riduttivo e saprebbe (potrebbe) rivolgersi a un pubblico piuttosto ristretto. La sistemica disaffezione nei confronti della religione istituita in genere, e del cristianesimo e dei suoi riti in particolare, non lascia certo pensare che siano molto più numerosi gli interessati ai brani musicali strettamente legati a questo “contesto sociale”, in sé sempre più ristretto, che definiamo “chiesa”.
La riflessione, piuttosto, vorrebbe muoversi in un orizzonte più ampio, andando a interpellare quelli che, servendoci di un termine che solitamente si ritrova nel mondo della letteratura, potremmo definire i classici. Parlare di «classici», in qualsiasi ambito, è un modo per indicare quelli che sono ormai riconosciuti (a una certa distanza di tempo) come dei veri e propri capolavori. Il giudizio in sé, tuttavia, non è semplicemente estetico o di gusto. Volendo ridurre il discorso ai minimi termini, queste opere sono contraddistinte invero da una decisiva caratteristica: esse sanno esprimere concretamente, nel rispettivo linguaggio prediletto (scritto, visivo, grafico…), il comune senso dell’umano così come vissuto in una determinata epoca.
È questa capacità, riconoscibile per certi versi solo a posteriori, che rende tale un classico. Ciascuno, in qualsiasi epoca storica, guardando a un classico, sapendolo leggere e interpretare, è in grado di ritrovarvi quel senso dell’umano, quella verità di compimento, quella «salvezza», che ciascuno chiede e ricerca nella propria esistenza.
Potremmo anche dire: un’opera diviene un classico nel momento in cui la si investe della responsabilità di poter “prendere la parola” a nome di tutta l’umanità, perché si riconosce in essa il dischiudersi di qualcosa di imprescindibile e di universale per dire il senso della vita di ogni singolo individuo. Gli elementi storici, geografici, sociali, economici che inevitabilmente segnano l’oggetto concreto e l’“ambiente vitale” in cui esso ha visto la luce, sono gli strumenti attraverso i quali l’autore è stato in grado di declinare quella verità riguardante ciascuno dei suoi destinatari (siano essi lettori, uditori, osservatori…), che si servono dei medesimi elementi proprio per riconoscere questa stessa verità (ecco perché ogni testo, Bibbia compresa, impone di essere interpretato e conosciuto a partire dal proprio con-testo).
Ebbene, a fronte di questa breve descrizione, la nostra domanda potrebbe suonare: è possibile declinare questa definizione di “classicità” anche nel mondo musicale? È possibile ascoltare dei brani, leggere dei testi e ritrovare in essi una singolare, particolare e concreta testimonianza di quel senso dell’umano che tutti ci accomuna? E ancora: è possibile fare questa operazione di “ricerca di senso” su canzoni a noi relativamente vicine, così da chiederci cosa queste possano dire a noi oggi, in questo nostro mondo ad esse relativamente contemporaneo? E infine: è possibile ritrovare una declinazione teologica di questo senso? Detto in termini quasi banali: è possibile parlare oggi di fede, di Gesù, di verità del Vangelo a partire da quel senso dell’umano a cui i grandi cantautori hanno provato a dare voce nelle proprie canzoni?
Se, come crede il cristianesimo, Dio si è fatto carne in Gesù affinché proprio così potesse giungere a compimento la sua rivelazione definitiva, non possiamo che credere (e sperare) di poter rispondere positivamente a tutte queste domande. Ogni frutto buono dell’intelletto umano, ogni “classico” nato dall’ingegno dell’umanità, rivela qualcosa dell’origine buona di ciascuno di noi. L’atto umano è sempre atto teologico, perché reca in sé (o almeno dovrebbe) l’immagine di colui che ne custodisce l’esistenza.
Questa è la fede cristiana, e a partire da qui vorremmo muoverci per interrogare quello che forse è un campo per molti versi ancora inesplorato e/o ignorato. Se il confronto fra teologia e letteratura è pressoché sterminato, e piano piano avanza un certo avvicendamento fra la teologia e l’arte (pur rischiando talvolta di banalizzare o ridurre il ben più fondamentale interesse per un’estetica teologica), la musica, e in particolare la cosiddetta “musica leggera”, fatica ancora a trovare un uditorio teologicamente interessato. La sfida, d’altro canto, è proprio questa. Anche laddove l’intenzione che porta a una canzone è tutt’altro che teologica (per non dire cristiana), forse proprio lì la possibilità di ritrovare un senso o un’indicazione preziosa su come vivere oggi la fede e su quale possa essere oggi il senso del Vangelo per il mondo che ci circonda, può non essere così peregrina.
Un Vangelo in chiave musicale, un vivere cristiano in dialogo e in ascolto del mondo della musica. Questa è la sfida, questo è lo sguardo con cui proveremo a guardare al nostro mondo, il linguaggio che proveremo a parlare, una (forse relativa) novità che, in un’epoca perennemente alla ricerca di una riforma della chiesa, forse val la pena di esplorare.
La musica supera ogni confine del pensiero e della parola,interpreta un sentire intimo Che è della persona, e. Linguaggio che arriva a Dio. Oggi nessuno più in chiesa canta, manca la voce, la voglia, o perché è rituale e quindi non spontanei? Un canto in chiesa dovrebbe essere preghiera è sentita, gli anziani ricusano perché non hanno voce, non tutti rispondono allle preghiere del rito. Certamente certa musica “classica” (Panicum Angelicum ma anche altre e’musica che da ali alla preghiera quella che ognuno sente rivolgere a Dio non solo ma anche libera da l’animo e apre a serenità, Inoltre certe composizioni sono state ispirate da sentimenti di devozione, per questo sono senza tempo e qualsiasi ascoltatore in quella musicalità trova le proprie espressioni per dialogare con Dio. .Peccato non si cerchi di avere musicisti, durante la messa, sarebbe uno stimolo per lo spirito alla preghiera.,