«La fede è una conoscenza oscura: ci fa conoscere qualcosa che non riusciamo a vedere. Ecco perché si deve dire che il fine da raggiungere sulla via della fede è anch’esso una notte: sulla terra, anche nell’unione dell’estasi, Dio ci resta nascosto»: così scriveva acutamente Edith Stein (1821-1942) in Scientia Crucis, il libro che concilia il suo indagare filosofico e la sua appartenenza carmelitana, in un messaggio di armonia tra fede e ragione, tra maturità umana e studio, tra filosofia e mistica — un messaggio che oggi più di ieri conserva una forza attuale straordinaria.
Edith Stein è stata donna di suture e cuciture: tra la radice ebraica familiare e il cattolicesimo scelto in età adulta; tra l’intelligenza raffinata e l’abbandono mistico; tra l’indagine serrata del pensiero e la preghiera fiduciosa; tra il discepolato di maestri e l’autonomia di giudizio; tra luce cercata e buio incontrato nei sentieri del mistero: davvero Edith Stein, poi Teresa Benedetta della Croce, tramanda con rigore una lezione che nel XXI secolo sentiamo come contemporanea. Per questo, più delle molte città in cui ella è stata (Friburgo, Gottinga, Münster, Spira, Colonia, Echt), è Breslavia forse quella che più di tutte può farci respirare il travaglio e la ricchezza di una grande cristiana del Novecento, uccisa ad Auschwitz dalla violenza nazista — violenza a cui si oppose fin dall’inizio. Breslavia che porta con sé le cicatrici del secolo scorso, in quel suo essere stata tedesca e poi, dopo la guerra, polacca; città in cui una comunità ebraica numerosa venne sterminata dalla follia nazista; città di cultura antica e di ricostruzioni, di diversità ricomposte (anche dolorosamente) e di futuro immaginato.
È una città, Breslavia, come molte altre di quella Mitteleuropa crogiolo di lingue e tradizioni e fedi, in cui Edith Stein nacque e si formò, in una quotidianità che sembra ricordarci quanto la propria humus sia semenzaio di frutti e di come ognuno porta con sé la radice che lo ha generato; passeggiando per Breslavia, andando a piedi dal curatissimo centro storico fino alla casa che fu il luogo di crescita di Edith Stein (e dove oggi vi è la sede della società di studi a lei dedicata) potremo forse capire quanto l’armonia tra un pensiero esigente, un’arte curata e una fede inquieta, capace di affrontare il buio, siano stati uno dei doni di Edith Stein al tempo che viviamo. Breslavia è stata il teatro di educazione di Edith Stein, nel suo intrecciarsi di molti fili, come il luogo che ella abitò.
Varrà la pena, anche, sostando a Breslavia, ricordare che la scelta che ella compì di conversione e di vita religiosa non fu facile né fu compresa dalla madre: «Naturalmente, le ultime settimane a casa e l’addio furono molto difficili. È stato totalmente impossibile far capire qualcosa a mia madre. Tutto rimase in tutta la sua crudezza e incomprensibilità, e io riuscii a partire solo confidando fermamente nella grazia di Dio e nella forza della nostra preghiera»: così scriveva in una lettera a Hedwig Conrad-Mar il 31 ottobre del 1933 (traduzione mia): parole che testimoniano una fortezza e una convinzione che non tralasciano l’empatia (argomento della sua tesi di dottorato con Husserl) e l’attenzione anche per coloro con cui non si riesce a condividere scelte e orientamenti; senza cedimenti, ammettendo il dolore, e senza nemmeno cinismi conflittuali. Anche di questo, nella bella Breslavia, potremmo forse fare memoria, sulle tracce di Edith Stein.