Negli ultimi anni la serialità televisiva ha acquisito un ruolo sempre più centrale nell’immaginario collettivo ed è diventata oggetto di studi, discussioni e convegni. Questa centralità nasce dalla convergenza di due fattori: da un lato, la ridefinizione delle modalità di fruizione grazie all’innovazione tecnologica e all’aumento delle piattaforme; dall’altro, la capacità delle Serie TV di raccontare le trasformazioni che attraversano la società contemporanea, anche grazie a fenomeni narrativi interessanti come il camouflage (ovvero la proposta di riflessioni complesse utilizzando generi narrativi popolari come la fantascienza, il genere horror ecc…). L’abbondanza di contenuti, tuttavia, oltre a generare un sovraccarico cognitivo, ha reso difficile l’emergere di racconti universalmente condivisi, in grado di diventare veri e propri eventi culturali. La visione non è più scandita dalla messa in onda tradizionale, ma segue ritmi personalizzati imposti dallo streaming, il che ostacola la creazione di momenti di discussione collettiva, complicati ulteriormente dal rischio di spoiler e dalla conseguente perdita di interesse. Solo alcune serie riescono a superare questa frammentazione, instaurando legami affettivi con il pubblico e alimentando pratiche «postspettatoriali» di condivisione e analisi (interpretazioni, critiche, meme, ecc.).
A questa regola non sembra sottrarsi nemmeno Adolescence, miniserie britannica approdata su Netflix nel marzo 2025, che ha immediatamente suscitato un acceso dibattito per l’intensità del suo contenuto (il femminicidio della giovane Katie Leonard per mano di un coetaneo, Jamie Miller) e per la rappresentazione spietata, quasi documentaria, dell’adolescenza e delle sue fragilità. Tuttavia, questi dibattiti paiono essersi sviluppati soprattutto all’interno di una nicchia di pubblico adulto (con la proposta di proporne la visione all’interno delle scuole), forse anche a causa di scelte stilistiche radicali: l’uso insistito, quasi ossessivo, dei piani sequenza, che sospendono la narrazione in un tempo denso e ininterrotto, obbligando lo spettatore a un’esperienza immersiva, una sorta di apnea percettiva, distante anni luce dai ritmi frammentati e incalzanti della serialità mainstream. Mi permetto alcune considerazioni a partire dalla sua visione.
Il linguaggio: il cantiere e i muri
Un paio di settimane fa ho mostrato ai miei studenti la scena iniziale di 2001: Odissea nello spazio. Alla fine, ho chiesto loro di descrivere ciò che avevano visto. Una ragazza ha provato a dire qualcosa, ma a bassa voce. Quando le ho chiesto di alzarla un po’, alcune sue amiche hanno commentato che non poteva farlo perché era “acciento”. Curioso, ho indagato: pare che su TikTok circoli un trend in cui le persone vengono classificate come “acciento” o “caribe”, in base all’inflessione dialettale e, per estensione, a presunte caratteristiche della personalità. Tuttavia, ricostruire il significato preciso è stato faticoso e persino frustrante: anche tra chi usava questi termini regnavano confusione e incertezza su cosa indicassero esattamente e su chi vi rientrasse. Il dibattito che ne è scaturito ha prodotto un effetto interessante: la parte della classe, composta soprattutto da ragazzi, che non conosceva affatto quel linguaggio, ha iniziato a manifestare insofferenza, percependolo come qualcosa di fumoso, difficile da afferrare e, soprattutto, divertente solo per pochi.
Adolescence riesce a restituire perfettamente questo senso di straniamento, sbattendoci in faccia un universo lessicale che si autoalimenta e si sottrae nel momento stesso in cui si mostra. Jamie e i suoi coetanei parlano una lingua che sembra concepita più per escludere che per comunicare, e che muta con la stessa rapidità con cui cambia l’umore di un adolescente. “Incel”, “redpill”, “manosfera”, “legge dell’80/20”, insieme all’uso criptico delle emoticon: Adolescence ci catapulta dentro un lessico polarizzato, innescato da un risentimento di genere che, complice la viralità dei social, è uscito dai confini di piccole nicchie per diffondersi, senza diventare universale, e segnare differenze. Non a caso, l’ispettore che conduce le indagini fraintende completamente il significato delle emoticon lasciate da Katie, la ragazza uccisa, sul profilo Instagram di Jamie.
Il linguaggio nasce come strumento per ridurre le distanze (fisiche, psicologiche, sociali) tra gli individui, ma da sempre ha svolto anche la funzione di marcare le differenze: geografia, storia e contesto sociale hanno generato idiomi che riflettono distinzioni di classe, identità, cultura, appartenenza e generazione. Ad esempio, nell’esperienza scolastica europea, lo studio del latino serviva a riconoscersi come classe dirigente capace di parlare una lingua che immediatamente marcasse la differenza rispetto alle classi inferiori con le quali si condivideva la “naturale” lingua della quotidianità. Anche le parole di Gesù sono state oggetto di simili analisi: già a partire da Julicher, si è ipotizzato che le parabole, originariamente pensate come strumento popolare e inclusivo, abbiano poi assunto nella tradizione evangelica una funzione escludente, volta a distinguere i discepoli dai suoi oppositori. Allo stesso modo, anche il linguaggio giovanile è stato identificato come un cantiere aperto, in bilico tra desiderio di autonomia e ribellione, una «meteora velocissima» composta di espressioni che brillano e cadono in disuso nel giro di pochissimi anni. Il vero nodo critico sollevato da Adolescence non risiede tanto nell’inevitabile distanza generazionale né nell’evoluzione del linguaggio in sé, quanto piuttosto nelle nuove forme espressive che, chiuse su sé stesse e spesso autoreferenziali, finiscono per erigere barriere invalicabili. Questo processo ostacola il dialogo, generando un’incomunicabilità che non si limita allo scarto tra le età, ma contribuisce a polarizzare il tessuto sociale, cristallizzando le differenze in corpi contrapposti, incapaci di riconoscersi reciprocamente.
La scuola come luogo di contenimento
L’episodio ambientato nella scuola è tra i più emblematici: Adolescence mette in scena il fallimento profondo della missione educativa dell’istituzione scolastica. Un fallimento che assume i tratti di una resa incondizionata. «Sembra un luogo di contenimento», osserva il poliziotto incaricato delle indagini, attraversando le aule e i cortili frequentati sia dalla vittima che dal colpevole. «Come si fa a imparare qualcosa qua dentro, con questa puzza?» si chiede, ricevendo dalla collega una risposta lapidaria: «Le scuole puzzano». Un breve scambio che restituisce un’immagine di una scuola in decomposizione morale. La scuola è descritta come un luogo di alienazione, dove la presenza degli adulti è flebile, intermittente, talvolta puramente repressiva: il professore assenteista viene coperto dagli studenti; gli interventi educativi si attivano solo in risposta a episodi problematici (un litigio, una mancanza di rispetto) senza una reale capacità di prevenzione o accompagnamento.
In questo vuoto, gli studenti costruiscono una forma di autarchia radicale, che si riflette nei comportamenti quotidiani. In una scena emblematica, una studentessa interrogata dalla polizia non solo rifiuta di rispondere, ma ribalta i ruoli, trasformando il colloquio in un controinterrogatorio: chiede al poliziotto di spiegare le stranezze del proprio figlio, anch’egli alunno di quella scuola. È il segno di un meccanismo inceppato, che fatica a tenere il passo con le trasformazioni antropologiche e tecnologiche in atto e dove persino un evento estremo come un omicidio finisce per essere trattato come l’ennesima pratica burocratica da archiviare perché tanto «non è avvenuto all’interno della scuola».
Si configura così un paradosso inquietante: mentre emergono questioni sempre più urgenti, che interrogano profondamente la società sul tipo di strumenti da mettere in campo, l’istituzione scolastica procede quasi tetragona, impermeabile alle sollecitazioni del reale, scalfita solo in modo marginale, se non con fastidio, dagli eventi. Una rappresentazione ben lontana dagli obiettivi di un’istruzione di qualità, che l’Unione Europea, il Ministero e le singole scuole si propongono di perseguire: dall’Orientamento formativo, inteso non solo come scelta dell’indirizzo ma come percorso di consapevolezza, scoperta delle proprie inclinazioni e ricerca di realizzazione personale, all’insegnamento dell’Educazione civica, con la sua vocazione alla cittadinanza attiva, alla cultura democratica, all’educazione all’affettività e al rispetto reciproco. La distanza tra gli obiettivi dichiarati e la fatica della realtà appare, in questo contesto, non solo evidente, ma strutturale.
[1^ parte]