«Forse mi farò un safari tra i leoni da tastiera…» canta Karl Brave nella canzone “Lieto Fine”, a proposito di una sua notte “alla Bukowsky”. Vien facile dire che ognuno sui social fa quel che vuole e si diverte come può: in fondo internet, quando è nato, è stato salutato come il luogo della finalmente massima libertà, in cui tutti potevano esprimersi senza filtri e mediazioni, singoli cittadini, minoranze culturali, opposizioni politiche… E quando sono arrivati i social network, ancora più facilmente ognuno ha avuto tra le mani la possibilità di prendere pubblicamente la parola.
In effetti ognuno usa questi strumenti, in particolare i social network, come vuole, ma proprio per questo la sfida oggi è decidere “come” starci dentro e per farci cosa. Così, giusto per dare un senso a quello che facciamo e al tempo che spendiamo. Non a caso si intitola “Verso una piena presenza. Riflessione pastorale sul coinvolgimento con i social media”, il documento pubblicato il 28 maggio 2023 dal Dicastero della Comunicazione e firmato da Paolo Ruffini, che del dicastero è prefetto, e Lucio A. Ruiz, che ne è il segretario. Un testo che è anche l’inizio di un progetto di riflessione collettiva: insieme al documento è infatti stato pubblicato un sito, www.fullypresent.website . La speranza è che esso serva da “punto d’incontro” per i comunicatori della Chiesa di tutto il mondo, dopo l’esperienza positiva del sinodo digitale, ispirata da Mons. Ruiz, che ha permesso ad una rete di “evangelizzatori digitali” di tutto il mondo di vivere on line la fase dell’ascolto. Le sintesi di quanto emerso sono poi state mandate come contributo alla tappa italiana e a quella continentale del cammino sinodale.
PER UNA PIENA PRESENZA
L’impostazione del documento si intuisce già dal titolo, che parla non di un corretto uso dei social network, ma di una “piena presenza”. L’infosfera, e i social in particolare, non sono solo strumenti di comunicazione, ma luoghi di vita. Sui social ci si incontra e ci si scontra, si gioca e ci si diverte, ci si informa, si diffondono idee, si sensibilizza a cause sociali o politiche… Succedono tante cose, compresa la nascita di veri e propri movimenti, che agiscono nel mondo fisico: si pensi alla primavera araba nell’ormai lontano 2010-2011, più recentemente al Movimento delle Sardine, ai Fridays For Future, al #metoo…
Tutte cose possibili perché i social sono strumenti nei quali si possono costruire relazioni. In questo senso, io resto affezionata alla vecchia definizione – social network – rispetto a quella oggi maggiormente usata e adottata anche dal documento – social media. Quest’ultima infatti sottolinea l’aspetto comunicativo, mentre la prima sottolinea la possibilità e la capacità di costruire reti. Il che non esclude che esistano i leoni da tastiera, l’hate speech, le fake news, i complottismi e quant’altro. E non esclude che sia più facile romperle, le relazioni, che costruirle (in fondo, basta un commento malevolo…). E che imperversi la superficialità della snackability, cioè la facilità di fruire dei contenuti sul web senza impegno o senza consumare tempo. E che i social siano il regno degli algoritmi, che catturano i nostri dati scegliendo poi per noi cosa farci vedere e chiudendoci così dentro bolle filtro che ci illudono di essere contatto con il mondo e invece ci chiudono in una piccola stanza fatta da quelli-che-la-pensano-come-me.
Eppure, è anche qui, in questo mondo onlife, che tante domande cercano risposta, che tante identità si formano, che tante persone si sentono un po’ meno sole.
TESSITORI DI COMUNIONE
E allora, la domanda a cui il documento “Verso una piena presenza. Riflessione pastorale sul coinvolgimento con i social media” cerca di rispondere è: come possiamo «essere testimoni – e perfino missionari – di Cristo» anche qui? (80) E per rispondere a questa domanda bisogna porsene altra: come passare dal livello della semplice connessione a quello della relazione? Come costruire relazioni «pacifiche, significative e attente»? Come si fa una buona comunicazione che costruisca comunità?
Le risposte non sono diverse da quelle che si darebbero a chi si ponga queste domande con riferimento alla vita fisica e ai rapporti face to face: si comincia dall’ascolto e «dalla consapevolezza di trovarsi davanti una persona» (25), si prosegue con il discernimento e dicendo la verità e si finisce con il prendersi cura, proprio come ha fatto il Buon Samaritano con il viandante ferito e nudo sul bordo della strada.
Questo però implica uscire dalla logica prevalente sui social: quella dell’influencer e dei follower. Al credente non è chiesto di diventare influencer: il valore di quello che fa non si misura dal numero dei follower – anche se ci sono oggi preti, religiosi e laici che ne hanno migliaia, a volte decine di migliaia – ma dalla capacità di essere testimoni o missionari digitali. Insomma «non tanto “singoli influencer”, ma “tessitori di comunione”: mettendo in comune i nostri talenti e le nostre capacità, condividendo conoscenze e suggerimenti» (76).
Il credente non parla per spinta narcisistica, ma perché appartiene a una comunità e costruisce comunità. Tanto più che nel momento stesso in cui accetta la sfida e cerca di cogliere le potenzialità dei social, sa che «è nella complementarietà tra esperienze digitali e fisiche che si costruiscono una vita e un percorso umani» (17).
SUSCITARE DOMANDE
E non sarebbe male se, oltre a prendersi cura delle persone, ci si impegnasse a prendersi cura dell’ambiente digitale. Al punto 58, il documento afferma che «il social web non è scolpito nella pietra. Possiamo cambiarlo. Possiamo diventare protagonisti del cambiamento, immaginando nuovi modelli costruiti sulla fiducia, la trasparenza, l’uguaglianza e l’inclusione. Insieme possiamo sollecitare le aziende dei media a riconsiderare il loro ruolo e lasciare che Internet diventi davvero uno spazio pubblico». Ma questo, francamente sembra proprio tanto difficile da fare. Gli algoritmi non hanno un cuore su cui fare leva, e forse neanche chi li governa.
È già tanto – veramente tanto – se provando ad essere missionari digitali, riusciamo giorno per giorno a «suscitare una domanda, risvegliare la ricerca. Il resto è l’opera misteriosa di Dio» (80)
Eppure la Chiesa on è stata orba al tema, Papà Benedetto XVI quel sabato 24 aprile 2010 ha voluto un “incontro con i Testimoni digitali” primo segno dato a questo nuovo percorso della “comunicazione” dove la Parola può “andare lontano, raggiungere chi non ha gambe per camminare, arrivare nelle brughiere, nella steppa, nella foresta equatoriale, tra i più poveri, senza prendere aerei, dotando di una semplice scatoletta chi è solo, ammalato a sentire una voce. Eravamo in tanti a quel saluto romano, e oggi il Pontefice anche dall’ospedale può inviare benedizione o essere incoraggiante con una vicinanza ai più affaticati dimenticati. Perché, per esempio non regalare tutti quei cellulari fuori commercio a chi non può comperarli, o incoraggiare a che la parola via etere giunga amica negli ospedali. Le Chiese sono semivuote, ma si può pensare però che preveggente, Cristo sia da annoverare come il Primo T.D. Visto che ha mandato il Paraclito