Non c’era posto per loro in parrocchia

Sulle aule d'oratorio, case per vacanze e altri immobili ecclesiastici vuoti e i gruppi di volontariato (anche cattolici) in cerca di una sede
11 Gennaio 2011

Cambierà qualcosa, ora che si è aperto l’Anno Europeo del Volontariato?

Era autunno e pioveva, quando quasi casualmente ho aperto un numero de L’Ancora, settimanale legato alla Diocesi di Acqui Terme (Alessandria). Il giornale pubblicava la lettera di Ivo Puppo, padre di tre figli di cui due fanno parte dell’Agesci. Puppo denunciava il fatto che il Gruppo Scout Acqui 1, con la sua quarantina di aderenti, ha dovuto lasciare la ridente cittadina per trasferirsi a Strevi dove, per carità, il vino è ugualmente buono, ma i problemi di spostamento non sono pochi, soprattutto d’inverno. Il motivo del trasloco? «Dopo aver peregrinato ed essere stato ospitato nel corso di un decennio in locali sempre diversi e provvisori, a volte anche fatiscenti e pericolanti», il gruppo ha dovuto arrendersi: più vicino nessuno è riuscito a trovargli una sede.

Attraversa l’Italia da anni la lamentatio sulle parrocchie che si svuotano, i giovani che non ci sono più, le Messe frequentate solo dagli anziani, e poi si lascia che quelli che ci sono se ne vadano, anche se in diocesi c’è un seminario, non più usato come tale, i cui locali «sono invece a disposizione di chi ha un’attività e può pagare un affitto».

La storia, purtroppo, non è nuova: in questo caso riguarda gli Scout e la diocesi di Acqui, ma altre simili riguardano da una parte associazioni e gruppi di volontariato che non trovano sede, dall’altra teatri parrocchiali, sale, campi sportivi disponibili solo a pagamento. Senza che, peraltro, i bilanci delle parrocchie siano mai resi pubblici e men che meno siano discussi dai fedeli. Per non parlare dei seminari vuoti o semivuoti, dei conventi sottoutilizzati, delle Case per ferie chiuse da anni

Non credo che per vivere la povertà la Chiesa non debba avere nulla. Le case famiglia, le mense, i centri di prima accoglienza, i doposcuola nelle periferie, i servizi per i disabili e per gli anziani, le cooperative per sottrarre i giovani alla illegalità, le missioni e i progetti di sviluppo, il sostegno ai cristiani perseguitati sono tutta roba che costa, come costa la formazione, la cultura, il mantenimento dei religiosi anziani e così via. Forse la carità si può fare con niente, ma la solidarietà richiede strumenti, anche economici.

La differenza è tra il possedere per speculare e conquistare potere e l’avere talenti da far fruttare e mettere al servizio dei poveri, della comunità e del bene comune. Fonti laiche – diciamo pure laiciste e non so quanto affidabili – dicono che la Chiesa italiana e il Vaticano possiedono il 20 per cento dell’intero patrimonio immobiliare italiano, e che a Roma questa percentuale sale ad un quarto dell’intero comparto. Mi piacerebbe sapere come si fanno questi conti. Mettere insieme le chiese di periferia e i palazzi in centro, gli oratori che sottraggono i ragazzini alla criminalità e le strutture riconvertite in fruttuosi alberghi, i monasteri medievali con gli uffici mi sembra, francamente, un’opera che può avere senso solo in chiave ideologica. E poi, se l’Italia oggi ha un welfare è perché la Chiesa ne ha costruito le basi e le strutture portanti: lo Stato è arrivato dopo e spesso si è limitato a metterci sopra il capello.

Ma il problema esiste e si concentra in due domande: di chi sono i beni della Chiesa? A chi devono servire?

A Roma ha sede la Fondazione Talenti, che ha una mission unica e geniale: è a disposizione degli ordini religiosi che hanno edifici sottoutilizzati, non a norma, difficili da gestire e cerca nel mondo del non profit progetti che rispondano a reali bisogni e che hanno bisogno di sedi per potersi realizzare. Attraverso una serie di consulenze li mette in rete, li aiuta trovare accordi e soluzioni confacenti ad entrambi, fa nascere inedite forme di collaborazione tra i laici con le loro competenze e i religiosi con i loro carismi e le loro storie. È così che a Mirano è nato un intero Villaggio Solidale, a Roma la Casa famiglia La Nuova Arca, a Como una casa per pazienti psichiatrici, nel salernitano un centro per i minori eccetera. Ma all’inizio di ognuna di queste storie c’era un ordine religioso o una chiesa locale che decideva di mettere a disposizione un proprio spazio per un progetto di solidarietà in cui non c’era niente da guadagnare, solo molto da dare. E che ha detto no alle luccicanti offerte di speculatori edilizi, investitori turistici e quant’altro.

Il Gruppo Scout Acqui 1 è, in questo senso, solo una piccola espressione di un problema con cui oggi la Chiesa deve avere il coraggio di confrontarsi, prima di tutto con i “suoi” laici. Parliamo tanto di emergenza educativa: è più importante trovare la sede per un gruppo di bravi ragazzi che si danno da fare per sé e per gli altri o inseguire i soldi dell’affitto? La chiesa locale che affida la casa per ferie eternamente in passivo ad un privato perché la trasformi in un produttivo albergo a tre stelle, ha fatto una scelta lungimirante, perché si è liberata di un inutile peso, o ha tolto un bene alla comunità, per trarne un tangibile guadagno? La risposta ovviamente è: “dipende”. Dipende da come userà quei soldi. Ma chi lo deciderà?

Era dicembre e faceva un freddo cane, il buio arrivava prima che uno se lo aspettasse e le strade ghiacciavano fino al mezzogiorno successivo. Ma gli scout del Gruppo Acqui 1 (grazie ai genitori disponibili) andavano su e giù da Strevi. E manco bevono vino.

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