Migranti? Parliamone. Pedofilia? No, grazie

Persino nelle comunità più "aperte", dove si pratica l'accoglienza e si stimola il dialogo, si fatica ad accettare di discutere degli abusi sessuali del clero. Eppure è un tema che colpisce nel profondo il corpo della Chiesa
22 Ottobre 2018

L’unità pastorale è grande, e attiva. All’incontro formativo per catechisti sono presenti una cinquantina di persone, un buon numero davvero. D’altro canto nei paesi delle campagne venete la presenza cristiana è ancora ben visibile, e si esprime al meglio nelle attività di volontariato di cui anche la catechesi, in un certo senso, fa parte. Incontro il parroco, e scopro un altro motivo di tanto interesse: è davvero in gamba. Parliamo un po’ e, dato il clima sociale in cui siamo immersi (mi verrebbe da dire impantanati …) il discorso cade sui migranti: «Come parrocchia cerchiamo di impegnarci per quanto possibile, siamo in collegamento con la Caritas diocesana. Potremmo tutti fare molto, davvero: le nostre canoniche sono belle e quasi sempre troppo grandi. Con il Consiglio Pastorale abbiamo deciso di ospitare qualche famiglia di profughi, per un certo periodo finché non trovano casa. Al momento vivo con una famiglia siriana, un’esperienza arricchente. Però c’è molto da fare con le comunità, la diffidenza è tanta, a volte davvero troppa».

Mi congratulo con lui per il risultato raggiunto. So per certo che altrove una simile scelta è stata tentata, ma si è arenata subito per gli ostacoli posti sia dalle amministrazioni locali che, purtroppo, dai ‘fedeli’ parrocchiani. Su noi cristiani e la nostra fatica nell’incarnare davvero il Vangelo discutiamo un po’ arrivando alla conclusione (scontata) che l’unica via possibile sia quella della formazione, una formazione che passi attraverso la testimonianza, il coraggio di qualcuno di fare gesti forti, la rilettura comunitaria intelligente (e non abitudinaria) del Vangelo, la preghiera autentica e fidente, il dialogo. Sul dialogo, sulla necessità di mettere a tema determinati argomenti negli incontri di routine e di organizzare momenti di riflessione critica, incontro però un ostacolo:

«Le nostre comunità, ma non voglio parlare di altri, parlo della mia, hanno bisogno di crescere. Quello dell’accoglienza del diverso è un tema che va affrontato con decisione, per sciogliere la paura e far maturare le persone»

«Sono d’accordo. La pastorale dovrebbe prendere una piega diversa, avere il coraggio di porre sul tavolo, sul serio, le questioni più scottanti che feriscono il nostro essere cristiani. Basti pensare non solo al tema dei migranti, ma alla nostra gestione del denaro, o al problema della pedofilia …».

Pausa.

Abbiamo continuato a parlare, ma ho avuto conferma del fatto che quello del legame tra la pedofilia e la nostra fede è tema che viene mediamente accantonato. Le scuse sono sempre le stesse: è problema di pochi preti con limiti personali, in fondo la statistica di Telefono azzurro mette la comunità cristiana agli ultimi posti per incidenza di abusi su minori, da noi queste cose non succedono per fortuna … In psicologia si chiamano meccanismi di difesa: la ferita è talmente abnorme che tendiamo a razionalizzare, per difenderci dal dolore e dalla vergogna. Ma, così come voler tenere a bada il male, negarlo o soffocarlo, mina irrimediabilmente la salute della persona, altrettanto succede con la Chiesa, che è prima di tutto un ‘chi’ – corpo di Cristo – e non solo un ‘cosa’ – un insieme di strutture.

Credo che anche così si spieghi il silenzio assordante seguito alla lettera di papa Francesco, la fatica nell’assumere l’impegno del digiuno e della preghiera. Pregare e soprattutto digiunare tocca me, la mia corporeità concreta; è assumere questo onere su di me, proprio su di me. Lo faccio volentieri se si tratta di pace, mi mette in crisi profonda se si tratta di pedofilia.

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