Ci sono santi e beati dei tempi recenti che, forse, non conosciamo, ed è quello di cui volevo parlare in questo articolo, ossia di una beata, laica non consacrata, di cui anch’io avevo solo sentito dire e la cui figura ho potuto conoscere meglio recentemente ad un incontro con il fratello e la sorella della donna in questione. Parliamo di Benedetta Bianchi Porro, la cui breve esistenza è stata contrassegnata da diversi problemi fisici invalidanti che, tuttavia, non le hanno fatto perdere la sua fiducia in Dio e nella bellezza della vita; un esempio di ciò è la serenità che trasmette agli amici che la vanno a trovare a casa, a cui dice: «la vita in sé e per sé mi sembra un miracolo e vorrei poter innalzare un inno di lode a Chi me l’ha data…».
Benedetta nasce a Dovadola, in provincia di Forlì, l’8 agosto del 1936; appena nata è colpita da un’emorragia e la madre le conferisce il Battesimo di necessità con l’acqua di Lourdes; a tre anni si ammala di poliomielite che le lascia la gamba destra più corta, tanto che i bambini la chiamano “la zoppetta”. Il padre, che è ingegnere termale, nel 1951 porta la famiglia a Sirmione e Benedetta frequenta il liceo a Desenzano. Già da qualche tempo indossava un busto ortopedico per evitare la deformazione della schiena e ora si aggiungeva un’incipiente sordità, ma ella non se cruccia più di tanto e fa progetti per il futuro: «Vorrei poter diventare qualcosa di grande».
Nell’ottobre 1953 si trasferisce a Milano per frequentare l’università: sceglie fisica, per compiacere il padre, ma la facoltà non le piace e passa a medicina, perché è convinta che la sua vocazione sia quella di aiutare gli altri come medico. Negli studi è molto brava e continua a sostenere esami, ma la malattia avanza inesorabilmente…
Dopo una via crucis di interventi chirurgici, arriva la diagnosi che lei stessa formulerà: neurofibromatosi diffusa o morbo di Recklinghausen, cioè una serie di piccoli tumori che minano il sistema nervoso e che la portano progressivamente alla perdita della vista, dell’udito, del gusto e dell’odorato, immobilizzandola in un letto. Tanti le scrivono e vanno a trovarla; Benedetta risponde a tutti, scrive molte lettere, da sola, con molta fatica, finché riesce; poi, con l’aiuto della mamma, comunica attraverso un alfabeto muto i cui segni venivano formati sul suo viso con le dita della mano destra, unica parte del corpo rimasta sensibile.
Nel gennaio 1964 si accorge che le sue condizioni generali sono peggiorate: «Spero che la “chiamata” non si faccia attendere troppo…» e questa arriva il 23 gennaio, ed ella si congeda da questo mondo con un messaggio di speranza: «Amate la vita perché anch’io sono stata contenta di quello che Dio mi ha dato». C’è anche un altro episodio accaduto quel giorno: una rosa bianca fiorisce, fuori stagione, nel suo giardino; quando Benedetta lo sa dice: «É un dolce segno…fra poco io non sarò più che un nome ma il mio spirito vivrà, qui fra i miei, fra chi soffre e non avrò neppure io sofferto invano».
Il processo per l’accertamento delle sue virtù cristiane si è svolto presso la diocesi di Forlì-Bertinoro e Benedetta è stata beatificata il 14 settembre 2019, nella cattedrale di Forlì, con rito presieduto dal card. Becciu, inviato di papa Francesco.
La beatificazione è dovuta ad un riconosciuto miracolo riguardante un giovane genovese, Stefano Anerdi, che, nel 1986, ebbe un brutto incidente stradale; la madre, che aveva letto la storia di Benedetta, fece iniziare una novena per chiederle di salvare suo figlio che, dopo nove giorni, uscì dal coma e in breve tempo si riprese: per la scienza medica era inspiegabile la guarigione del giovane!
A leggere la sua biografia non si può certo dire che sia stata una ragazza fortunata e vi domanderete, mi domando: come Benedetta abbia potuto lodare Dio, ringraziarlo per i suoi doni (quali?) e dire di amare la vita! Certo, chiusa nella sua stanza e paralizzata, ha vissuto giorni bui e di lotta, il dolore è stato il suo pane quotidiano, Dio non era ancora il suo sostegno… poi, pian piano comincia ad aprirsi a Lui. In un secondo viaggio che fa a Lourdes (nel primo aveva chiesto di guarire per farsi suora), il miracolo sarà la scoperta della sua vocazione, del disegno di Dio su di lei: la croce; giorno dopo giorno Benedetta si apre all’azione della Grazia in un sofferto cammino di fede e di abbandono (cos’è la fede se non un abbandonarsi a Dio?) che la purifica dal suo “vedere negativo”, per renderla una creatura nuova che pian piano si spoglia di tutto per divenire dono agli altri. Ad un’amica confidava: «Dalla città della Madonna si torna nuovamente capaci di lottare, con più dolcezza, pazienza e serenità Ed io mi sono accorta della ricchezza del mio stato, e non desidero altro che conservarlo».
Ecco il senso della sofferenza di Benedetta, una grandissima lezione di fede e di coraggio proprio a partire dalla sua sofferenza, dalla sua infermità: è “il mistero” di Benedetta, è il mistero della croce che redime! Diceva: «Ora nel letto che è la mia dimora, ho trovato una sapienza più grande di quella degli uomini. Ho trovato che Dio esiste ed è amore, fedeltà, gioia, certezza, fino alla consumazione dei secoli… la vita in sé e per sé mi sembra un miracolo e vorrei poter innalzare a Dio un inno di lode a Chi me l’ha data… certe volte mi chiedo se non sia io una di quelle cui molto è stato dato (!) e molto sarà chiesto…».
Perle di luce, una dimensione alta, sublime, un sapore di eternità!
Una grande testimonianza di fede, una grande scoperta questa della beata Benedetta Bianchi Porro che può scuotere la nostra ‘pallida’ fede, forse adagiata su un tranquillo ‘tran-tran’ che non chiede troppo, ma non è capace di guardare in alto, di arrivare alla “maturità della fede” come dice san Paolo nella prima lettera ai Corinzi, maturità che diventa abbandono fiducioso in Lui.