Quello in cui anche tu fai, o meglio, sei una statuina, è il presepe più coinvolgente: impossibile fingere, distrarsi, chiamarsi fuori. T’interroga quella prossimità alla capanna (e se fosse capitato a me, d’essere pastore in quella notte?), ti sorprende il tornare contemporaneo a Gesù, poterlo avvicinare, coccolare…
Ma questo protagonismo non spiega da solo il rinnovato boom dei presepi viventi (quasi duecento in Italia, secondo un provvisorio censimento nel web), allestiti da parrocchie, oratori o interi paesi. «La fede necessità anche di espressioni semplici e veraci» ricordava giorni fa Georg Ratzinger nell’editoriale di Avvenire in cui affermava, forse con eccessivo ottimismo, che «pietà popolare e gioventù vanno d’accordo».
Nell’armonia travolgente del “fare il presepio” comunitario – “niente senza il parroco”, possibilmente – si respira e si materializza in modo efficace l’identità conciliare della parrocchia come piccolo “popolo di Dio”: le generazioni si mescolano (dal nonno con barba da re magio al nipotino avvolto in fasce), si evidenzia la diversità dei carismi (i cantori si arruolano fra gli angeli, gli artigiani s’identificano in san Giuseppe) e finiscono per crollare, una tantum, le distinzioni sociali: sotto la democratica veste del pastore si confondono l’egregio direttore di banca ed il suo usciere, appaiati in fila verso Betlemme.
Se poi ad ogni tenda beduina viene assegnata una famiglia del rione, per ragazzi e giovani i giorni dell’attesa si riempiono di fervore casalingo: si lavora insieme per arredarla al meglio, ridando dignità a materiali poveri e oggetti abbandonati, riciclaggio di fede e di fiducia reciproca. Ben vengano asini e pecorelle non plastificate, col termometro sotto zero ci si può sperimentare davvero “al freddo e al gelo”.
Soltanto emozione? Più della deriva folcloristica o patinata, il vero tarlo del presepio vivente – dopo i primi anni d’entusiasmo ruspante – è il perfezionismo sfrenato, il gigantismo da record: ci si preoccupa soprattutto di moltiplicare comparse e animali, ricostruzioni d’ambiente e colpi di scena, tanto che qualcuno vorrebbe metterci perfino qualche elefante.
È facile, nelle sproporzioni dell’allestimento, smarrire il significato francescano: se il presepe diventa un museo degli antichi mestieri, ostentazione etnografica, perde la sua anima. E noi lì a fare le… belle statuine, a sentirci guardati invece che a guardare l’Evento, soltanto interpreti e non spettatori.
Il sospetto si alimenta quando troppe Pro Loco o enti di promozione turistica molto zelanti vogliono mettere il proprio timbro sull’iniziativa. O le offerte raccolte finiscono per finanziare l’allestimento stesso piuttosto che ad alleviare i bisogni dei poveri di qualche Betlemme lontana.
Un correttivo? Affinché il presepe vivente non esaurisca la sua genuina carica di “narrazione” (rivolta ad orecchi ed occhi oggi sempre più distratti) è bene affidarsi ad un valido lettore e sincerarsi che funzioni bene l’amplificazione. Che la Parola resti insomma la vera protagonista della scena contadina e tutti possano ascoltare in attenta contemplazione il racconto evangelico, senza farsi rapire dall’emozione e distrarre dagli animali esotici