Fase sinodale continentale: accoglienza, conversazione, tensioni -1

Documento sinodale continentale e sintesi italiana finale, tra novità, divergenze e temi ricorrenti...
21 Dicembre 2022

Avevo concluso il primo contributo dedicato all’analisi del Documento di lavoro per la tappa continentale (DTC) del cammino sinodale segnalando la necessità di evidenziare (sulla base delle tre domande del §106) quelle che nel DTC potrebbero essere, rispetto alla Sintesi nazionale italiana, 1) le «intuizioni nuove o illuminanti»; 2) le «tensioni o divergenze sostanziali»; 3) «le priorità, i temi ricorrenti e gli appelli all’azione condivisi».

Ciò che ritorna in entrambi i discernimenti è il riconoscimento, non solo della partecipazione (§5) e del coinvolgimento (§1) del popolo di Dio al cammino sinodale, ma anche quanto essi siano stati desiderati (§2; §15) e gustati (§3; §86) con gioia (§14). Potrebbe sembrare, però, che via sia una discrepanza tra i due discernimenti nel momento in cui, nonostante «molti hanno chiesto di estendere e condividere con altri» (§16) tale gioia, il DTC afferma che «il modo di riuscirci come comunità cattolica veramente globale è qualcosa che occorre ancora scoprire completamente» (§100; §102).

In realtà anche nel DTC, come nella sintesi italiana, si esorta ogni livello ecclesiale a rivalutare e riattivare (o istituire ex novo) gli organismi «intermedi» (§33) di partecipazione che possono incarnare quei «processi comunitari di ascolto e discernimento» (§33) fonti di tale gioia. Anzi, in alcuni passaggi il DTC – rispetto alla sintesi italiana – è in tal senso ancora più fermo: «nel nostro tempo essi sono indispensabili» come «luoghi istituzionali di inclusione, dialogo, trasparenza, discernimento, valutazione e responsabilizzazione di tutti», e quindi «non (…) solo consultivi, ma luoghi in cui si prendono decisioni sulla base di processi di discernimento comunitario», seppure non secondo il «principio di maggioranza così come è utilizzato nei regimi democratici» (§78), bensì secondo il «metodo della conversazione spirituale (…) articolando il discernimento con i processi decisionali» (§86).

Ritorna, infatti, l’apprezzamento per il metodo della conversazione spirituale, che ha aiutato a vedere e a dire con onestà e lealtà luci e ombre della Chiesa (§17), a partire dalle «difficoltà» sperimentate (§18; §33), siano state esse frutto di «resistenza» – se non di «rifiuto molto netto» – o di «scetticismo» (§18), di «paure» del clero o di «passività» dei laici (§19), di «ostacoli strutturali» (§33). A tal proposito, nel DTC emerge con maggior forza, rispetto alla sintesi italiana, il fatto che molti dei «non (…) riconosciuti» (§32), dei «feriti e allontanati sono tornati» (§17) proprio perché «è stata la prima volta in cui la Chiesa ha chiesto il loro parere» (§17). Il DTC lo definisce «l’aspetto più trasformativo dell’intero processo» (§32; §38): come se il guscio di un uovo si fosse frantumato e avesse potuto dispiegarsi in tal modo una vita nuova, liberata per prendere il volo (§23); come se alcune persone familiari avessero potuto finalmente sperimentare «i primi passi del ritorno da un esilio» – un «ritorno desiderato» – in un luogo in cui «davvero sentirsi a casa» (§24; §29). Sarebbe perciò quasi “sacrilego” sprecare, dissipare questo tesoro di ritrovate relazioni con una ricaduta delle Chiese locali e della Chiesa universale in attendismi e pigrizie varie.

Non a caso la prima esperienza/idea chiave del DCT (che ritorna ampiamente anche nella sintesi italiana) è il riconoscimento e l’accoglienza/inclusione (§16; §30-31) dell’altro come soggetto (§32), soprattutto quando questi altri nella (e dalla) Chiesa si sentono “esiliati (…) denigrati, trascurati, incompresi” (§38): i giovani innanzitutto (§35), poi le persone con disabilità (§36) ed ogni vita fragile e minacciata (§37), quindi tutti coloro che vivono certe “relazioni affettive” (divorziati risposati, genitori single, poligami, persone LGBTQIA+ – §39), infine i poveri, gli anziani soli, i migranti, i bambini di strada, gli alcolizzati e i drogati, le vittime della criminalità, della prostituzione, della tratta e degli abusi, i carcerati, i discriminati per razza, etnia, genere, cultura e sessualità (§40), gli altri cristiani (§ 22; 45; 47-49), gli altri credenti e i non credenti (§43; §54), financo la terra/ambiente (§45), le donne (§60-65).

Questo «apprezzamento dell’altro», però, ha un importante e decisivo risvolto teologico – presente anche nella sintesi italiana: «nell’abbraccio di una diversità che è ricchezza possiamo trovare (…) l’occasione di collaborare con la grazia di Dio», ossia – come dice meglio la sintesi dello Zimbabwe – «dovremmo anche prestare attenzione ai pensieri e alle idee della famiglia allargata e dei compagni di viaggio (non cattolici, politici, non credenti). Ci sono voci attorno a noi che non possiamo permetterci di ignorare se non vogliamo perdere quanto Dio sta sussurrando attraverso di loro» (§54).

Ora, la necessità di lavorare all’«accettazione dell’altro» (§54) si manifesta, secondo il DTC, a prescindere dal contesto culturale (§40). Ciò non toglie che i «contesti culturali specifici», con i loro «cambiamenti sociali profondi e rapidi», influenzino la vita della Chiesa, sottoponendola a differenti «sfide significative» (§50) che a volte richiedono, per essere affrontate con spirito sinodale, «il coraggio della profezia» (§52): settarismo, tribalismo e etno-nazionalismi (§50; §44); individualismo e consumismo a danno delle famiglie e delle relazioni intergenerazionali (§51); persecuzioni violente o conversioni forzate (§52). Ciò spiega anche perché il DTC affermi che la Chiesa debba comprendere meglio in che modo assumere «un approccio interculturale più consapevole (…) apprezzando le differenze culturali (…) come fattori di crescita», soprattutto se in contesti di «minoranza» (§53), e riconciliando «le apparenti contraddizioni (…) tra le pratiche culturali [locali] o le credenze tradizionali e gli insegnamenti della Chiesa» (§56; §55).

L’elenco delle persone costituenti una sfida per quella (parte della) Chiesa che vuole “allargare la Sua tenda” (§42) spiega molto bene perché l’obiettivo posto dal DTC sia immaginato raggiungibile solo in modo graduale, dato che esso comporta «una più ampia e profonda conversione degli atteggiamenti e delle strutture, nonché nuovi approcci di accompagnamento pastorale e la disponibilità a riconoscere che le periferie possono essere il luogo in cui risuona un appello a convertirsi e a mettere più decisamente in pratica il Vangelo» (§32; §44).

Riguardo tali sfide, però, alcune affermazioni del DTC devono essere tradotte per noi italiani in domande un po’ scomode: nelle comunità ecclesiali italiane, «coloro che si sentono a casa nella Chiesa avvertono la mancanza di coloro che invece a casa non si sentono» (§29)? La sintesi italiana rientra tra quelle che «evitano due delle principali tentazioni che si presentano alla Chiesa di fronte alla diversità e alle tensioni che essa genera» (§30; §85)? Oppure, come mi sembra (e più volte ho fatto notare), i cattolici italiani finiscono per «distaccarsi spiritualmente e disinteressarsi delle tensioni in gioco, continuando a percorrere la propria strada senza coinvolgersi con chi ci è vicino nel cammino», così da «rimanere intrappolati nel conflitto», perdendo «il senso dell’insieme» a scapito di «sotto-identità» (§30) che rendono queste tensioni «distruttive» (§71)?

È anche vero che lo stesso DTC non ci aiuta del tutto a comprendere in che modo le Chiese possano vivere «più pienamente» il paradosso che dovrebbe tenere insieme in modo non conflittuale il «proclamare con coraggio il proprio insegnamento autentico» e l’«offrire una testimonianza di inclusione e accettazione radicale attraverso un accompagnamento pastorale basato sul discernimento» (§30), riproponendo così la difficoltà (analoga) che ha avuto la sintesi italiana nell’articolare adeguatamente il rapporto tra verità sostanziale da comunicare/testimoniare e linguaggio/modalità della comunicazione/testimonianza. Questo, come più volte abbiamo segnalato e auspicato, è veramente un nodo che richiederebbe un impegno maggiore e uno sforzo più comunitario per essere sciolto.

[1^ parte]

Una risposta a “Fase sinodale continentale: accoglienza, conversazione, tensioni -1”

  1. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    Non si comprende da tutto questo se è un Vangelo a essere proposto e fatto conoscere per essere vita nuova,o se invece viene adattato per allargare il numero di coloro che aspirano a essere compresi senza però,come il giovane ricco della parabola aderire a quella vita che Cristo ha indicato a volerlo seguire. Certo che tutta la folla accorreva a mangiare il pane offerto ma a diventare esso stesso pane, la rinuncia che è richiesta e questo il problema,la conversione. Certo dare il pane e carità non vuole un ritorno e qui certamente tutti corrono e questo serve ad avvicinare poi sarà opera di Dio che “vedano” con la luce della Fede in Lui.

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