Ho ripensato alla figura di Don Luigi di Liegro – il sacerdote che nel ’79 ha fondato la Caritas diocesana di Roma – leggendo in questi giorni gli appassionati dibattiti che si sono aperti su Vino Nuovo e che in qualche modo hanno riguardato il tema del rapporto tra i cattolici e la politica. Recentemente è uscita una biografia, a cura di don Maurilio Guasco, che ricostruisce la figura di un protagonista della storia sociale ed ecclesiale del nostro paese. Uno che queste due dimensioni della vita delle persone – sociale ed ecclesiale – le ha tenute insieme, saldandole strette a quella politica (il libro, non a caso, si intitola Carità e Giustizia. Don Luigi Di Liegro 1928-1997 ed è edito da Il Mulino 2012).
Uomo di preghiera e di cultura, alla fine degli anni sessanta don Luigi era uno dei maggiori esperti di pastorale della diocesi di Roma, nonché convinto sostenitore del metodo di lavoro metodo di lavoro della Gioc (la Gioventù operaia cristiana), che aveva imparato in Belgio e che implicava “immersione nella massa” e “condivisone della vita” dei meno fortunati. Era anche convinto della centralità della parrocchia nella vita ecclesiale e della necessità che questa si aprisse agli ambenti di vita delle persone, impostando il proprio lavoro sull'”ansia degli assenti”. In perfetta sintonia con il Concilio.
Per lui fede e carità erano un binomio inscindibile, e non vi poteva essere santità, senza l’una o senza l’altra. Scriveva che «Abbiamo bisogno della carità della Chiesa, abbiamo bisogno della comunione dei santi: non solo dei grandi santi già canonizzati o in via di esserlo, non solo dei grandi mistici di cui conosciamo i nomi, ma degli eremiti, dei solitari, degli abbandonati, dei malati, degli ignoranti, che vivono nel segreto della vita di Cristo, ma dei militanti sindacalisti, degli uomini politici, dei professionisti, dei lavoratori, delle mamme e dei padri di famiglia, dei giovani studenti e dei giovani lavoratori che portano nella vita pubblica del paese la testimonianza che l’amore soprannaturale è la risorsa del più autentico progresso».
Aveva insomma un’idea di santità vissuta nel quotidiano e nel sociale, che fa sì che il cristiano, proprio per la sua fede e proprio per la sua carità, «non può mai accettare lo status quo, né restarsene tranquillo o rassegnato ad attendere che le cose cambino da sole.» Deve anzi stare dentro le cose e contribuire a cambiarle, ordinandole a Dio. Il che in quegli anni voleva dire che i credenti dovevano stare dentro i consultori familiari, le circoscrizioni, i distretti scolastici: tutte realtà nuove, che stavano prendendo forma.
Il fatto è che la carità, secondo di Di Liegro, non era scindibile dalla giustizia: la carità senza giustizia è elemosina che non cambia le situazioni, la giustizia senza la carità è astratta e disumana. E, se lo scopo è l’accoglienza dei più poveri e la giustizia, il metodo è la partecipazione. Fondando la Caritas diocesana, nel ’79, insegnava ai laici e ai credenti che, per coniugare l’una e l’altra, il volontariato deve allargare il proprio ruolo. Non può limitarsi ad alleviare la sofferenza degli “ultimi”, come si diceva allora, o degli esclusi, come si dice oggi. Deve anche individuare e denunciare le cause della povertà e dell’esclusione. Quindi deve avere un ruolo profetico, di denuncia delle ingiustizie e impegnarsi portare alle coscienze la consapevolezza del gap tra diritti dichiarati e diritti realizzati. E deve avere un ruolo politico, nel senso di assumersi anche la responsabilità di dialogare con le istituzioni, per chiedere i cambiamenti e leggi che rendono una società più accogliente e inclusiva, fare proposte, portare la voce degli ultimi nelle stanze del potere. Insomma, per costruire giustizia. Questa, peraltro, era un’idea condivisa da tutti coloro che sono stati i fondatori del volontariato moderno, che in quegli anni ha preso forma, mons. Giovanni Nervo e mons. Giovanni Pasini, i fondatori della Caritas nazionale, o Luciano Tavazza (Movi) e Maria Eletta Martini (Cnv), tanto per fare qualche esempio.
Avere un ruolo politico, non voleva dire entrare nelle filiere clientelari, anzi: il volontariato deve essere autonomo e vanno tagliate tutte le forme di collateralismo. Anche quelle nei confronti della Democrazia cristiana, il partito dei cattolici che allora era fortemente al potere. Di Liegro era convinto del fatto che la classe politica di quegli anni gestisse in maniera troppo clientelare il potere, facendo prevalere gli interessi personali, amministrando in modo cinico. Ma, nonostante questo, era un convinto assertore della necessità di dialogare con le istituzioni e la politica.
Uno dei momenti chiave del suo impegno per la giustizia fu l’organizzazione, su incarico del card. Poletti, del convegno “La responsabilità dei cristiani di fronte alle attese di giustizia e di carità nella diocesi di Roma”, passato alla storia come il “convegno sui mali di Roma”. Era il 1974, c’erano voluti due anni per organizzarlo, parteciparono 5.000 persone e suscitò ampia discussione nella DC, nel mondo ecclesiale, in tutta la società civile: baraccopoli, povertà, solitudine… da quel momento fu molto più difficile ignorarli.
I politici non amavano Di Liegro: quelli di destra, ovviamente, lo consideravano un comunista, quelli di sinistra un rompiscatole ingovernabile. Ma neanche la gente lo amava, tranne i poveri. Era scomodo per tutti.
Dalla fondazione della Caritas in poi aprì mense per i poveri, dormitori, centri di accoglienza, case famiglia. Allora erano realtà nuove, e la gente ne aveva paura: ci furono quasi sempre manifestazioni di protesta, che si trattasse della zona di Termine, della periferia di Centocelle o dei quartieri ricchi, come i Parioli. Proprio ai Parioli volle aprire una casa famiglia per i malati terminali di Aids, all’interno del parco di villa Glori. L’Aids allora faceva paura: era una malattia ancora poco conosciuta, incurabile e mortale. Chi si ammalava veniva isolato e abbandonato. Contro il progetto nacquero comitati di quartiere, assemblee, petizioni, interviste ai media contro il prete che sognava di portare i malati nel cuore di un quartiere-bene. Di Liegro tenne duro, e nel 1988 la casa finalmente si aprì.
Ma certo non era molto popolare questo prete che difendeva i malati, i Rom, gli immigrati, i poveri e pretendeva che fossero accolti tra la gente, nel tessuto sociale della città, quando tutti volevano allontanarli.
Per questo anche nella Chiesa ci furono molti che non lo amavano. Perché non ne condividevano le battaglie: pensavano che spettassero ad altri. Ma anche perché percepivano chiaramente che la visione di Di Liegro metteva in discussione molte cose anche nella Chiesa. Come scrive Maurilio Guasco, Don luigi si augurava «che una maggiore partecipazione alla vita socio-politica determini una riflessione sulle strutture di partecipazione anche all’interno della Chiesa».
Non puoi dire che i partiti sono “gelidi comitati d’affari”, come fece nell’ ’89, e poi accettare nella Chiesa gli interessi economici prevalgano su quelli per le persone.
Non puoi spingere la gente alla partecipazione e poi accettare che nella Chiesa non abbia diritto di parola.
Non puoi parlare di ruolo profetico del volontariato e accettare che la comunità ecclesiale deleghi tutto alla Caritas e non si faccia carico di chi è in difficoltà.
Non puoi educare alla responsabile nella società e nella politica e poi chiedere ai fedeli di essere passivi nella vita ecclesiale. Tanto più se c’è stato un Concilio che, scriveva, «ha messo fortemente in rilievo questo carattere fondamentale della vita della Chiesa, richiedendo con insistenza che ogni cristiano ne sia un membro attivo e responsabile. Possiamo dire che per la sua costituzione fondamentale la Chiesa richiede delle strutture di partecipazione.»
Insomma, per Di Liegro, salire in politica è per i cristiani un dovere, e la partecipazione è un valore sempre, nella società e nella Chiesa.