Quella di questa XV Domenica anno A è LA parabola. Non tanto perché essa sia la più importante, ma piuttosto perché la chiave di lettura ce la fornisce lo stesso Gesù. E la prima parte di questa chiave non è tanto nella spiegazione che Lui fornisce ai discepoli, ma nella frase introduttiva che racconta delle azioni di Gesù. Egli esce di casa e si siede in riva al mare, si sposta sulla barca a causa della folla, si siede di nuovo, parla.
La chiave di lettura sta in quell’uscire di Gesù. È Lui il seminatore che esce a seminare, e il seme è la sua Parola. In Marco Gesù inizia la spiegazione affermando che «il seminatore semina la Parola» (Mc 4,14), l’evangelista Matteo non fa ripetere questo concetto a Gesù quando spiega la parabola perché tutto è già chiaro nel Suo atteggiamento che introduce il testo.
Ma anche la serenità con cui il seminatore accetta che una parte di seme non raggiunga terreni buoni ha un corrispettivo nell’atteggiamento introduttivo di Gesù e lo troviamo in quel suo sedersi e risedersi, prima sulla riva del mare (di Galilea) e poi sulla barca. Quel sedersi e risedersi mettendosi a «parlare loro di molte cose» racconta di una serenità di Gesù rispetto a quella Parola di cui è portatore e seminatore. Una serenità che si fonda sulle parole di Is 55 (la Parola che, come la pioggia e la neve che irrigano, non torna a Dio senza effetto), una serenità che si permette di condividere e raccontare quella Parola anche nella forma, quantomeno enigmatica, della parabola. Essa non è una storiella che semplifica e rende più facilmente accesso al testo, ma una parola che mira a suscitare il cambiamento nell’ascoltatore, inserendolo in un contesto che può giudicare facilmente senza essere in un primo momento coinvolto di persona. Di fronte però allo svelamento della Parabola non può fare a meno di trarne conseguenze per la propria vita.
Nel caso del seminatore noi siamo i terreni. E in un modo o nell’altro pensiamo di poterci mettere tutti tra i terreni buoni che portano almeno un po’ di frutto (sempre sovrabbondante…). Ma forse dovremmo anche prendere in considerazione gli ostacoli presenti in tutti i terreni, comprendendo che siamo protagonisti di tutta la parabola, che in noi ci sono tutti quei terreni, che le varie parti e le varie esperienze della nostra vita corrispondono all’intero racconto di Gesù. Quale terreno siamo, quando e dove può cambiare nel tempo e nello spazio, intesi come il trascorrere della vita e le situazioni e condizioni in cui siamo.
È praticamente impossibile essere sempre e ovunque terreno fertile.
Ma se comprendiamo veramente che la nostra intera vita corrisponde all’intero brano, allora possiamo affrontarla in modo nuovo e fare appello anche a quell’introduzione che ci ha guidato fino qui. Ci tocca anche essere seminatori, siamo anche invitati ad essere quelli che escono, quelli che si siedono, che si spostano per adattarsi alla situazione, non per essere camaleonti o coperchi per qualunque pentola, ma per rendere il più efficace possibile lo spazio per l’annuncio della Parola. Se siamo gente che esce, che si siede, che si alza e si risiede potremo contribuire alla dinamicità della predicazione e dell’annuncio. A volte anche con parole sapienziali e/o enigmatiche ma che spingano noi stessi per primi e coloro con i quali siamo seduti a una ricerca più vera e a un’accoglienza nuova della Sua Parola di vita.
Sará x quello che tu scrivi che ogni mia confessione inizia con l’accusa di peccati di omissione..
Lui ci affida ogni giorno il nostro giardino.
Prima di lamentarci di croce&probls&reward assente… dobbiamo chiederci SE lo abbiamo ‘coltivato’ e ancor prima COSA abbiamo messo al primo posto.. ( Vangelo odierno…)