Anche in questa VI domenica di Pasqua, il Vangelo di Giovanni (14,23-29) prosegue nel raccontarci i “discorsi dell’addio”, quelli fatti dopo l’ultima cena, nei quali Gesù annuncia ai discepoli che cosa succederà, ma soprattutto cerca di convincerli a non avere paura della sua assenza, perché, semplicemente, non sarà tale. O almeno, non sarà tale per chi lo ama e crede in lui, e quindi resterà in comunione con lui e con il Padre, grazie allo Spirito.
Questo dunque è il brano da rileggere quando sperimentiamo la sua lontananza, quando avremmo bisogno di sentirlo vicino – se non fisicamente almeno attraverso un segnale riconoscibile del suo agire in mezzo a noi – e invece ci appare lontano e silenzioso, sempre più lontano e silenzioso, tanto da farci pensare che è proprio impossibile credergli. È umano non riuscire a stabilire una relazione con chi non sentiamo in qualche modo vicino, nella mente o nel cuore o nell’anima. Tanto più deve essere stato difficile accettare la lontananza fisica di Gesù per gli apostoli e i discepoli, che lo avevano conosciuto con tutti cinque i sensi. Eppure è proprio questo, quello che Gesù sta spiegando ai suoi: che la sua “partenza” non significa assenza, ma solo passaggio ad un modo diverso di essere presenti.
«SE UNO MI AMA, OSSERVERÀ LA MIA PAROLA». Per poterlo incontrare, Dio non ci chiede miracoli né superpoteri: ci chiede solo di amarlo e quindi di vivere secondo il vangelo. Qualunque genitore – ma anche qualunque insegnante, educatore, allenatore sportivo, leader – sa quando poco lontano porti l’obbedienza fine a se stessa, ottenuta solo perché non si lascia alternativa. Magari tuo figlio o il tuo alunno o il ragazzo che con cui stai lavorando farà quello dici, ma appena potrà, tornerà a fare quello che vuole lui. Ciò che conta è la motivazione, la convinzione con cui si accetta una regola, una richiesta. E qui la motivazione è una sola: l’amore. Se amerai Gesù, sarà per te normale seguire la sua parola, altrimenti sarà un’imposizione.
«IL PADRE MIO LO AMERÀ E NOI VERREMO A LUI E PRENDEREMO DIMORA PRESSO DI LUI». Questo è il primo dono che Gesù fa ai suoi e a noi: la possibilità di dimorare con Dio. Se ami Gesù, il Padre amerà te ed entrambi prenderanno dimora presso di te. È nell’amore che si risolve il dilemma della vicinanza, di questo Dio che non si può né vedere né toccare eppure c’è, ed è vicino. Una soluzione che ogni giorno va ritrovata, perché l’amore non è mai dato una volta per tutte, ma va ogni giorno riaffermato ed è ogni volta diverso.
Il termine “dimora” è impegnativo. Nell’antico Testamento la dimora era il tempio, oppure era la tenda. Ma ora la dimora è presso colui che ama. È dentro ognuno di noi, nella nostra vita, nei nostri gesti, nelle nostre parole, nelle nostre comunità. È nell’uomo che Dio dimora: è qui che parla, è qui che dobbiamo cercarlo.
«CHI NON MI AMA, NON OSSERVA LE MIE PAROLE; E LA PAROLA CHE VOI ASCOLTATE NON È MIA, MA DEL PADRE CHE MI HA MANDATO». Da che cosa sono riconoscibili i cristiani? Che cosa fa la differenza rispetto a chi non crede? Questo: la disponibilità ad amare che ci rende dimora di Dio. E in conseguenza alla quale seguiamo la sua Parola.
«VI HO DETTO QUESTE COSE MENTRE SONO ANCORA PRESSO DI VOI. MA IL PARÀCLITO, LO SPIRITO SANTO CHE IL PADRE MANDERÀ NEL MIO NOME, LUI VI INSEGNERÀ OGNI COSA E VI RICORDERÀ TUTTO CIÒ CHE IO VI HO DETTO». Questo è il secondo dono: lo Spirito Santo. La Parola va ascoltata, ma anche compresa, tradotta in scelte di vita e gesti quotidiani, individuali e comunitari. Per questo, Dio ci dona lo Spirito, che farà due cose: ci insegnerà “ogni cosa” e ce le ricorderà. Dunque, Gesù ci regala colui grazie al quale possiamo avvicinarci all’intera verità.
Ognuno di noi, in un discorso, in un libro, in un film coglie alcune cose, che per diversi motivi lo interessano o lo colpiscono di più. E questo probabilmente avveniva anche per i discepoli, ognuno dei quali poteva essere più colpito da un avvenimento o da un discorso piuttosto che da un altro. Conoscere una cosa nella sua interezza è un lavoro lungo e faticoso, che implica anche il confronto con gli altri, per mettere insieme ciò che ognuno ha colto. Per questo Gesù, andandosene, lascia il suo Spirito, che ci insegnerà – o ci aiuterà a cogliere – ogni cosa. E lo farà agendo dentro le nostre coscienze, perché nel linguaggio biblico “ricordare” non significa solo riportare alla memoria, ma implica una consapevolezza, una presa di coscienza.
«VI LASCIO LA PACE, VI DO LA MIA PACE. NON COME LA DÀ IL MONDO, IO LA DO A VOI. NON SIA TURBATO IL VOSTRO CUORE E NON ABBIA TIMORE». Ed eccoci al terzo dono che Gesù lascia ai suoi e a noi: la pace. Anzi la “mia pace”, cioè la pace di Gesù, non quella degli uomini, sempre fragile e transitoria. Shalom (pace) era una formula di saluto abituale tra i Semiti, e indicava qualcosa di più della semplice assenza di conflitti: faceva riferimento allo stare bene in tutte le sue dimensioni, e quindi alla felicità, al benessere, alla salute.
Gesù non si limita ad augurare la pace, ma la dona. Grazie a lui l’uomo si è riconciliato con Dio, tanto che Dio dimora in lui. Gesù non è un re, un condottiero, un capo di Stato che può decidere se fare la guerra o fare la pace. È il Figlio di un Dio che viene ad abitare con noi e porta una pace diversa: la sua.
«AVETE UDITO CHE VI HO DETTO: “VADO E TORNERÒ DA VOI”. SE MI AMASTE, VI RALLEGRERESTE CHE IO VADO AL PADRE, PERCHÉ IL PADRE È PIÙ GRANDE DI ME. VE L’HO DETTO ORA, PRIMA CHE AVVENGA, PERCHÉ, QUANDO AVVERRÀ, VOI CREDIATE». Dopo aver donato la pace, Gesù chiede un impegno, quello di rallegrarsi. Ma come è possibile gioire di fronte a uno che sta annunciando la sua morte? È difficile, ma ci si può riuscire seguendo l’invito di Gesù a guardare attraverso l’evento, per coglierne il senso. Sì, è vero, me ne vado, ma per tornare da mio Padre. Parto, ma per entrare nella gloria. I motivi della gioia sono senza dubbio più grandi di quelli del dolore.
Infine, una considerazione finale: Gesù sta per allontanarsi fisicamente dai suoi. È difficile accettarlo, ma è un passaggio indispensabile perché possa diffondersi ovunque la sua parola, liberata dai legami con una persona, con un luogo fisici, con un momento storico. In fondo, è lo stesso momento di crisi che devono affrontare tutti i movimenti, le associazioni, gli ordini religiosi: quando muore il fondatore sembra che tutto debba finire, e invece – se ha seminato bene – tutto cresce e si espande.