ANNO B – XXXII DOMENICA TEMPO ORDINARIO – Mc 12, 38-44
Un brano dalle parole di fuoco. Gesù sta insegnando apertamente alle folle di Gerusalemme. Sa perfettamente che è sotto l’occhio malevolo delle autorità ebraiche, ma proprio contro di loro il suo linguaggio si fa quasi spietato. Sarà l’ultimo atto di insegnamento pubblico prima della sua morte, forse la goccia che fa traboccare il vaso dell’ira delle autorità.
“Guardatevi dagli scribi” (v. 38), cioè state attenti, proteggetevi e tenetevi lontani da coloro che voi stessi riconoscete come autorità in materia religiosa. È davvero strano: Gesù non dice mai di “guardarsi” da coloro che vengono considerati peccatori, ma proprio da chi, invece, ha il potere di definire socialmente chi è peccatore e chi no. Come mai? All’inizio della spiegazione Gesù li definisce “i volenti” (v. 38), cioè coloro che coltivano un fine, una intenzione profonda che si mostrerà essere non evangelica. Il motivo, quindi, non è una demonizzazione dell’autorità religiosa in quanto tale, ma lo svelamento di un “modo” non evangelico di incarnare quell’autorità, costituito da una intenzione ben precisa, che si esplicita in tre forme.
La prima dichiara la loro fragilità interiore. Cercare di “attirare” (v. 38) i saluti nelle piazze e camminare dentro a “vesti” (v. 38) che definiscono un ruolo socialmente riconosciuto, è ciò che da loro stabilità, che li tiene in piedi. E ciò dichiara la loro inconsistenza interiore, il loro vuoto abissale di senso, in cui, se quel ruolo venisse meno, non saprebbero più chi sono.
La seconda dichiara la loro poca autostima. Il primo posto (v. 39) nelle sinagoghe è un seggio posto in alto, lontano dai fedeli, visibile da tutti. Il primo posto (v. 39) nei banchetti è a lato del padrone di casa, in posizione dominante rispetto agli altri invitati. Finalizzare il proprio vivere sociale a questo dichiara davvero un vuoto abissale nella percezione della stima di sé, che deve essere disperatamente sostenuta dagli sguardi degli altri, altrimenti non sta in piedi.
La terza dichiara la loro solitudine esistenziale. Pregare solo “in apparenza” (v. 40) e divorare le “case” (i beni, le relazioni, gli affetti, la vita) delle vedove, racconta di una fame di “relazione” autentica, in cui una solitudine abissale non risolta dall’apparenza sociale, diventa una terribile avidità di vita che non guarda in faccia a nessuno e produce danni su coloro che sono indifesi, pur di “vincere facile”.
Un quadretto davvero triste, di una vita sprofondata nell’abisso della mancanza di senso, di amore e di bellezza. Che si conclude con una delle poche volte in cui Gesù non dà speranza e segnala come alla fine questi “prenderanno un giudizio eccedente” (v. 40) rispetto agli altri, cioè si costruiranno da soli una condizione in cui quella fragilità, quella scarsa autostima e quella solitudine li terranno separati dagli altri per mancanza di amore, ben di più di quanto avrebbero prodotto se avessero amato disordinatamente.
In contrapposizione a questo atteggiamento viene mostrato, invece, il modo in cui una vedova “getta due spiccioli nella cassa delle offerte del tempio” (v. 42). Era il luogo in cui si depositavano beni e denaro come offerte al “tempio”, destinati di per sé ai poveri, tra cui anche le vedove (Cfr. Dt 14,28-29), ma che nel tempo erano finiti per foraggiare i sacerdoti e gli stessi scribi. Quindi il modo “ufficiale” attraverso cui venivano “divorate” le persone bisognose.
Ma qui Gesù non porta la sua attenzione sull’ingiustizia sociale, ma si concentra sulla vedova. Parola che significa alla lettera “apertura abissale”, cioè chi non ha più la terra sotto i piedi, chi non sa più a chi appoggiarsi per restare in vita. Ma proprio questa drammatica condizione diventa capace di far fare a questa vedova un gesto radicale e salvifico che gli altri non fanno. Gli altri gettano “dal loro eccedente” (v, 44), cioè solo ciò che non gli serve per vivere, che non li sposta esistenzialmente, non li mette a rischio, mentre lei getta “dalla sua mancanza tutto quanto aveva, l’intera sua vita” (v. 44).
Compie cioè un atto esistenziale di consegna totale di sé a Dio, affidando la sua stessa sopravvivenza a Lui, dove l’intenzione non è quella di “garantirsi” dagli abissi della vita come fanno disperatamente gli scribi, ma al contrario, quella di vivere pienamente quell’apertura abissale, senza “vesti di ruolo”, senza aggrapparsi al riconoscimento degli altri o alle briciole “divorate” ai poveri. Lei accetta, cioè, di essere sé stessa fino in fondo, restando dentro a quell’abisso, sostenuta solo dalla fiducia in Dio. E proprio da quell’abisso si offre tutta, perché ha solo sé stessa, senza nemmeno sperare di uscire da lì, diventando, così, simbolo del credente che pienamente si fida Dio.
L’orizzonte ultimo di noi che crediamo è, infatti, drammatico. Cristo ci ha “afferrato” per il suo fascino vitale, in cui i nostri bisogni hanno trovato pane e ci ha spinto a cercare di seguire le tracce della sua bellezza, della sua gioia, della sua verità nella nostra coscienza e ciò ci è apparso capace di dare senso pieno alla vita e di farci uscire dai nostri “abissi” personali, realizzando i nostri desideri.
Ma più siamo cresciuti nel suo amore e più ci siamo resi conto che questo è ancora un modo di “usare” Dio per noi, mentre quell’amore che dentro brucia spinge verso la consapevolezza radicale che non potremo mirare a salvarci, che siamo destinati a stare dentro a quegli abissi fino a morirci, non ad uscirci di lato usando Dio come parafulmine, con tutta la frustrazione e il dolore che questo ci porta.
Solo da qui, però ci si rende conto che ci vuole un salto radicale di fede: smettere di usare Dio per noi e cominciare a consegnarci a lui, mettendo a rischio le nostre sicurezze, i nostri equilibri funambolici, le nostre “chiusure abissali”. Tutti siamo “vedovi”, tutti siamo “apertura abissale” possibile. Se ci spaventiamo di questo ci freghiamo da soli. Se ci lasciamo andare a quell’abisso, sperimenteremo quelle cose che “occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo” (1 Cor 2,9), preparate da Dio per coloro che lo amano.
Grazie Gilberto per l’analisi suggestiva, esaustiva e che evita tranelli moralistici o comode scorciatoie per riscatti individuali.
Posso solo aggiungervi la mia monotona ricerca di un messaggio unificante nella moltitudine di episodi, racconti, insegnamenti del vangelo, aventi tutti rivolti un unico intento, la salvezza.
Nel brano gli scribi rappresentano l’impossibilità di conoscere se stessi e quindi di essere quando l’oggetto del conoscere corrisponde al soggetto. È possibile invece essere se l’oggetto è Dio e il soggetto ne è figlio.
Gli scribi vogliono disperatamente essere con i propri mezzi, proprio per sfuggire a quest’abisso nel quale è impossibile essere mentre la vedova rimane nel proprio essere nel quale l’oggetto è Dio, gettando il soggetto, se stessa la propria vita, a lui per salvare se stessa.
Nella sua “piccolezza” la Chiesa di Cristo si dimostra essere grande. Come la donna povera della Parabola, ha il coraggio di esibire il Vangelo unico pane che da vita e salva, contro tutto quanto il mondo vanta essere bene possibile ideale da raggiungere attraverso ricchezza e potere, sollecitando ad un aspirare costante a aumentare tutti quei beni resi ogni giorno nuovi e necessari alla conquista dei quali la vita stessa di molti esseri umani viene sacrificata, offesa, privata del diritto a vivere in dignità e libertà La Chiesa, non ha da offrire ne oro né argento, ma della moltitudine di esseri umani che ancora oggi grida e lamenta le molte privazioni e povertà divenute pesi insopportabili, si fa portavoce autorevole, forte di quel potere che le è stato dato, sostenuta dallo Spirito di un Dio che ha dato la vita per la salvezza di tutti.